10 outfit che hanno fatto la storia di Sanremo

Design e performatività hanno accompagnato per oltre settant’anni l’uso dell’abito e dei costumi nelle esibizioni del Festival di Sanremo. Abbiamo selezionato dieci (più uno) momenti iconici nella storia della kermesse.

Performance pirotecniche e composizioni di ogni livello, leggende e meteore, ma anche suicidi (e tentati suicidi): questi gli ingredienti che nel corso di sette decenni hanno formato a Sanremo il canzoniere italiano, plasmando l’identità nazional-popolare. Tantissime sono le cose accadute in oltre settant’anni al Festival della Canzone Italiana, che oggi vive un momento particolarmente importante. Una rinascita in fatto di posizionamento sulla mappa della cultura pop che conta che sarebbe sembrato non solo inaspettato, ma anche insperato, fino a pochi anni fa.

La retromania imperante ha incontrato nei millennial e nella Gen Z un pubblico entusiasta, anche grazie all’eccellente veicolo comunicativo trovato nei social media – dal redivivo Facebook a Tik Tok –, dove si accumulano clip di edizioni del passato, meme e, ultimo arrivato, il Fantasanremo: la versione rivierasca del più celebre fantacalcio.

Un’audience non necessariamente televisiva ma ancora vergine alla narrazione che aveva portato le generazioni precedenti a disinnamorarsi del Festivàl, anzi ad etichettarlo come prodotto cinicamente commerciale e zelantemente pop.

Certo i sociologi potrebbero vedere nella rinnovata volontà di partecipazione a Sanremo anche da parte di artisti provenienti da mondi sulla carta da esso lontani, come il rap e l’indie, il risultato di una società che, sebbene frammentaria, si è fatta fluida, facendo crollare quelle barriere ideologiche che in precedenza ghettizzavano generi e scene. Non che prima non succedesse, ma la narrazione era completamente diversa: nel 1992 Gli Statuto indissero un referendum di piazza tra la loro fanbase Mod prima di portare alla manifestazione canora la loro meta-canzone "Abbiamo Vinto il Festival di Sanremo."

Tra l’inevitabile fascinazione per l’estero e il desiderio di imitazione (e ostensione social), la volontà sembra oggi quella di resuscitare il vecchio contenitore di Sanremo per trasformarlo in una ibrido tricolore (e spesso maccheronico) di Met Gala e Eurovision.

Se le scenografie rappresentano da sempre un fiore all’occhiello di Sanremo, ecco che i costumi hanno recentemente acquisito maggiore rilevanza nella narrazione del festival, con la crema delle maison italiane a fare a gara a vestire le star. Nelle ultime edizioni il successo di pubblico e critica dei Måneskin e del duo Mahmood Blanco è anche passato per i loro outfit, rispettivamente firmati Gucci e Valentino.

Ma già dai decenni precedenti case come Versace, Cavalli e Ferrè avevano indissolubilmente legato il loro nome al Festival, vestendo nell’ordine Loredana Bertè (1986), Mietta (2000) e Giuni Russo (2003), tra le altre. Altrettante sono invece state le occasioni in cui l’abito è stato indossato con scopo performativo o come sublimazione dello spirito del tempo.

Ripercorriamo il rapporto tra Sanremo e il fashion design in dieci artisti (più uno).

Anna Oxa (1978, 1986, 1999)

Anna Oxa punk con styling di Ivan Cattaneo, Sanremo 1978
Anna Oxa punk con styling di Ivan Cattaneo, Sanremo 1978

“Anna Oxa a Sanremo conciata come una punk londinese”, ricorda Max Collini nel flusso autobiografico contenuto in “Robespierre”, brano di culto del 2005 degli Offlaga Disco Pax. Oxa, che proprio quest’anno ritorna a Sanremo, aveva debuttato su quel palco nel 1978, ad un anno dall'esplosione londinese del Punk, fenomeno giovanile in Italia ancora quasi del tutto sconosciuto. Fu il collega e amico Ivan Cattaneo, di ritorno dalla capitale inglese e testimone diretto della nascita della sottocultura, a occuparsi dello styling shockando l’Italia intera che assisteva allo show in poltrona. 

Oxa, che sarebbe poi apparsa altre 13 volte sul palco di Sanremo, vincendone due e affiancando Pippo Baudo nella conduzione dell’edizione 1994, è stata pioniera nel fare degli abiti un cardine delle sue performance con mutamenti camaleontici. Nel 1986, forse ispirata dai costumi di Grace Jones in James Bond: A View to Kill, è la prima a scoprire l’ombelico al Festival con un vestito nero che si incrocia sul seno culminando in un cappuccio tra il medioevale e il mediorientale. Design poi tributato nel 2022 da Noemi con una creazione di Alberta Ferretti.

Altrettanto capace di cristallizzarsi nella memoria collettiva è l’outfit con cui la cantante pugliese vinse Sanremo 1999. Uno styling essenziale, con capelli fissati all’indietro, crop top e un paio di pantaloni scampanati a vita bassa che simbolicamente aprono anche sul palco dell’Ariston la stagione della moda y2k, oggi attualissima.

 

 

Righeira (1986)

A metà Ottanta i Righeira rappresentavano per l’Italia una sintesi inedita tra fulminanti tormentoni pop e una sensibilità artistica ricercata, e forse mai del tutto compresa. Se sulla copertina del loro album d’esordio avevano posato con cravatte Memphis, per portare “Innamoratissimo” a Sanremo si affidano agli stilisti Calugi e Giannelli, con alcune interferenze di Galliano sull’outfit di Michael e iperboliche cravatte custom-made che toccavano terra. L’acconciatura, altrettanto folle, era invece opera del genio di Orea Malià, salone che ha segnato la storia del sodalizio tra hairstyling e controcultura giovanile nella storia italiana.


 

 

Tom Hooker (1981)

Gli Ottanta sono stati il decennio che ha sancito l’ascesa di Milano come capitale dell’haute couture, ma anche quello del boom del fitness e della Italo Disco. In una delle edizioni più interessanti per il progetto della scena, Tom Hooker, paladino del genere nonché voce prestata a molti successi attribuiti a Den Harrow, racchiude una decade in una performance in tuta rossoblu, un po’ paladino di un anime giapponese, un po’ Jane Fonda e un po’ concept in lycra di Nanni Strada. I pattini a rotelle sono la ciliegina sulla torta. Quando si dice zeitgeist.

 

 

I Ribelli (1966)

Il costume può anche farsi gesto performativo volto a commentare il presente. Nel 1966, in piena Beatlemania e relativo sensazionalismo della stampa sui ‘capelloni’ e la devianza giovanile, I Ribelli (già gruppo di spalla di Adriano Celentano) si esibiscono con delle parrucche che poi lanciano al pubblico durante l'esecuzione della loro “A La Buena De Dios”. Ribelli, di nome e di fatto.

 

 

Loredana Bertè (1986)

Il Festival dell’’86 è anche quello della guerra fredda dietro le quinte tra le regine del pop tricolore Bertè e Rettore. Entrambe in gara con dei brani non dei loro migliori, ma destinate ad entrare nella storia della manifestazione grazie ai loro outfit. Bertè veste un abito per lei appositamente pensato da Gianni Versace, un body in latex nero con pancione gravido prostetico, spalline borchiate e seni appuntiti. Una perfetta sintesi tra un numero di Atom Age e una creazione di Thierry Mugler. 

La performance, che all’epoca suscitò non poco scalpore, è stata recentemente ripresa e citata da Lady Gaga che ne ha senza dubbio intuito il potenziale iconografico visionario.

Loredana Bertè in Versace, 1986. Foto: Loredana Bertè
Loredana Bertè in Versace, 1986. Foto: Loredana Bertè

Achille Lauro (2020)

Con Achille Lauro la sfera performativa e quella del fashion design si fondono quando, durante l’edizione 2020, il cantante si esibisce con la sua “Me Ne Frego” traendo spunti da figure chiave dell’arte, della storia e della musica, da San Francesco d’Assisi a David Bowie, da Anna Bolena alla Marchesa Casati, nobildonna, mecenate e musa dei futuristi, mettendo in luce come nel pastiche del contemporaneo non esista più grado di separazione tra cultura alta e bassa. Gli abiti, firmati da Alessandro Michele per Gucci, completano il quadro. 

L’operazione viene ripetuta, sempre in Gucci, l’anno seguente in qualità di ospite, citando personaggi come il Brian Eno della fase Glam e la Mina di Rane Supreme.

 

 

Matia Bazar (1978, 1983)

Quella del 1978 è stata la seconda edizione del Festival di Sanremo a colori. Le riprese dell’epoca ci restituiscono una delle scenografie più interessanti della storia della kermesse, con il suo fondale a gradiente rosso-arancio e un typeface sinuosamente disco. I Matia Bazar, vincitori con la loro “...E Dirsi Ciao”, si amalgamano con i toni caldi della scena in costumi che ci fanno rendere grazie per l’invenzione del sistema PAL.

Stivali in velluto rosso, tight glitterati e striminziti come body, abiti bianchi da Yacht Rock e pastrani dal gusto orientale che restituiscono l'immagine di un’Italia che guardava con attenzione all’estetica Glam Rock del Rocky Horror Picture Show e degli Spider From Mars di David Bowie, ma anche al fascino di Marrakech come lisergico paradiso esotico. 

Matia Bazar, Sanremo 1978. Archivio Ragazzi di Strada.
Matia Bazar, Sanremo 1978. Archivio Ragazzi di Strada.

Passata giusto una manciata di anni, i Matia Bazar tornano a Sanremo con suono e estetica totalmente rivoluzionati. In pieno filone post-moderno, la formazione è glaciale e sintetica come la strumentazione elettronica portata sul palco per l’esecuzione di “Vacanze Romane”. C’è l'influenza di Mendini e Alchimia (che poco più tardi realizzerà l’artwork dell’album “Aristocratica”), della videoarte dei GMM, ma anche la patina nostalgica della Dolce Vita filtrata attraverso il monitor di un computer come appariva in quegli anni sulle pagine di Frigidaire. A rendere la performance ancora più unica fu la scelta di esibirsi sopra la scena, elevando visivamente e concettualmente l’opera del gruppo.

 

 

Elio & Le Storie Tese (1996)

Massimalismo, ironia e citazionismo hanno sempre segnato la carriera degli Elio & Le Storie Tese, sin dai loro esordi sul palco del Festival di Sanremo. L’abrasiva riflessione socio-culturale sull’Italia della corruzione e delle stragi di Mafia de “La Terra dei Cachi” è accompagnata dal surrealismo di una performance in cui il gruppo si veste da Rockets entrando istantaneamente a far parte dell’iconografia pop nazionale. 

 

 

Patty Pravo (1984)

Negli anni Ottanta la cultura pop occidentale è attraversata da un marcato gusto orientale, che si accoda alla stagione della New Wave e del ritorno di fiamma dell’estetica della Repubblica di Weimar. Neanche l’underground Italiano è immune al fascino esercitato da Cina e Giappone. Nei cinema esce I Ragazzi di Torino Sognano Tokyo e Vanno a Berlino, opera prima del regista Vincenzo Badolisani, e a Sanremo Enrico Ruggeri scrive la pregevole “Sonnambulismo” per gli emergenti new waver Canton.

Patty Pravo veste Versace, Sanremo 1984
Patty Pravo veste Versace, Sanremo 1984

Prima di tutto ciò, Patty Pravo partecipa all’edizione 1983 vestendo un algido e cinetico kimono argentato firmato Versace accompagnato da un enorme ventaglio e da un’acconciatura di ispirazione nipponica. Uno dei look più affascinanti ed elusivi della cantante, decenni prima che il concetto di appropriazione culturale entrasse nella quotidianità della Gen Z.

 

 

Donatella Rettore (1986)

Quella del 1986 è stata una delle edizioni più interessanti del Festival di Sanremo, sia entro la sfera del design che in quella del termometro sociale della nazione. È l’anno in cui un giovane Eros Ramazzotti vince con “Adesso Tu” vestito con Timberland Dockside e calzini di spugna bianchi come un Paninaro, il cui omonimo fumetto di riferimento, nato proprio quell’anno, gli dedica addirittura una striscia. 

Donatella Rettore, invece, veste quello che forse è il suo abito più stupefacente dei molti indossati a Sanremo. Un lungo vestito bianco con spacco ad aprirsi sulla gamba velata in nero e ali/spalline aggettanti decorate in sequin dorato. Glam, onirica e anche vagamente Cavaliere dello Zodiaco. Ancora una volta il palcoscenico nazionalpopolare per eccellenza si dimostra sublime nel reinterpretare e sintetizzare le molteplici influenze del mondo sulla cultura del tempo. 

 

 

Nada (1969)

Nada, Sanremo 1969
Nada, Sanremo 1969

Giovanissima esordiente con il successo “Ma Che Freddo Fa”, Nada veste il candore e la casità dell’adolescenza con la malizia della rivoluzione yè-yè dei Sessanta abbinando stivali Go-Go bianchi al ginocchio con un vestito, anch’esso bianco, impreziosito da maniche esaltate nei volumi con decorazioni a margherita. Un tributo alla giovinezza e ai fiori della riviera. Lo alterna ad una tunica bianca e corta con maniche scampanate in pizzo traforato.

 

 

Bonus: Bad Manners (1981)

Tanti sono stati gli ospiti internazionali passati sul palco del Festival di Sanremo, da Louis Armstrong e Marianne Faithfull a Blur, Bowie e Depeche Mode. Ad avere lasciato il segno sono però stati, soprattutto, i Bad Manners, band inglese che portò lo Ska al Festival, contribuendo non poco alla diffusione del genere tra i teenager italiani dell’epoca. Il motivo? La tuta da lavoro bianca, simbolo della classe operaia britannica, (e le Adidas Samba) con cui l’istrionico cantante Buster Bloodvessel si presenta sul palco, salvo spogliarsene e mostrare il lato B (e non quello del singolo “Lorraine”) alla platea dell’Ariston, dove si intravede un divertito Sergio Leone. Situazionismo sottoculturale a spettinare un Festival ancora legato alla tradizione.

Immagine di apertura: Anna Oxa, Sanremo 1978.

Ultimi articoli di Design

Altri articoli di Domus

Leggi tutto
China Germany India Mexico, Central America and Caribbean Sri Lanka Korea icon-camera close icon-comments icon-down-sm icon-download icon-facebook icon-heart icon-heart icon-next-sm icon-next icon-pinterest icon-play icon-plus icon-prev-sm icon-prev Search icon-twitter icon-views icon-instagram