La storia delle scarpe che si avvolgono come un fazzoletto

Il racconto del designer Masaya Hashimoto ripercorre un decennio dalla nascita delle premiatissime Vibram Furoshiki, di cui quasi metà investito in sviluppo del prodotto.  

Il furoshiki è il tradizionale fazzoletto quadrato che nella cultura giapponese si avvolge attorno a un oggetto per trasportarlo. Il fazzoletto può essere di colore diverso, di ampiezza diversa; si può traportare un vestito, un bento, una bottiglia o un’anguria: la tecnica, antichissima, resta la stessa. Le Furoshiki, invece, sono un paio di scarpe che Vibram, storica azienda italiana specializzata in suole soprattutto per outdoor, ha lanciato quasi sei anni fa. Sono calzature particolarissime e innovative, che al posto della tomaia presentano due ali di tessuto da avvolgere attorno al piede. Una suola con la scarpa più che una scarpa con una suola, quindi. Il loro nome completo è Vibram Furoshiki The Wrapping Sole e hanno vinto, andando a ritroso, il Compasso d’Oro nel 2018, il Grand Award di Design for Asia Awards nel 2017 e il Premio Nazionale per l’innovazione assegnato dal presidente della Repubblica. Oggi sono alla terza generazione. Come siano nate, “è una storia molto italiana” e al tempo stesso un progetto con un “andamento strano”, racconta a Domus il concept manager di Vibram Masaya Hashimoto, con la sua distintiva parlata in un italiano fluidissimo ma dagli improvvisi, illuminanti costrutti simil-haiku, che tradiscono chiaramente le origini giapponesi da un lato, e il fatto che Masaya oramai viva in Italia da parecchio tempo, dall’altro. “Dall’inizio al progetto finale è cambiato tutto”, ricorda il designer. All’origine di Furoshiki c’è una richiesta che ancora oggi non è stata soddisfatta. 

Com’è cominciato tutto

“Noi produciamo suola. Sportiva, casual, lavoro”. Così Masaya sintetizza egregiamente la missione aziendale di Vibram, nome che sintetizza a sua volta, secondo una modalità frequentissima nelle imprese del nord Italia, il nome del fondatore, Vitale Bramani, alpinista e inventore delle suole a carro armato. Suo nipote Marco, presidente di Vibram, qualche anno fa lancia una sfida ai suoi designer: ridurre il numero degli stampi, visto che a ogni misura di scarpa corrisponde uno stampo e gestirli è un lavoro complicatissimo. Tra loro c’è Masaya Hashimoto. “Ho cominciato a pensare e farmi delle domande”, ricorda lui, aggiungendo di essersi interrogato soprattutto sul fatto che la tomaia, ovvero la “scatola della scarpa”, dovesse seguire per forza la grandezza della suola. Era il 2011 e da lì è scaturito il pensiero delle Furoshiki, “più come una reazione che come una risposta”. La domanda originale resta però a oggi senza soluzione. “Non ho ancora soddisfatto Marco Bramani”, sigilla il discorso Masaya.

Quella notte

“Alle 4 del mattino mi sono svegliato e mi è venuto in mente il furoshiki”. E del tradizionale fazzoletto portaoggetti giapponese, due sono i concetti che a Masaya interessano a quel punto. Il primo è che nel furoshiki la forma cambia a seconda del contenuto. “Questa scoperta è molto importante: normalmente è l’utente che deve adeguarsi alla scarpa e non viceversa”. Le scarpe inglesi, o italiane, possono non essere adatte ai piedi degli orientali, che sono più corti e larghi, racconta. “È quello che succede anche con la valigia, che è un contenitore dalla forma fissa e non si adatta a ciò che deve essere traportato”. Se il primo concetto è la forma, il secondo è la decorazione. Il tessuto del furoshiki può essere diverso a seconda dell’occasione; per un matrimonio è bianco, magari per trasportare una anguria è verde come l’ortaggio. “Allora la scarpa potrebbe diventare qualcosa di diverso, un altro tipo di pensiero. Nel nostro caso, una suola avvolgente”.

Oggi non c’è un maestro, un pensiero di design, personalità forti che propongano qualcosa a prescindere che venda o meno. Adesso è tutto omogeneo, comanda il marketing, la vendita. Mi mancano un po’ gli anni Ottanta

Il prototipo

“Mi ero appena sposato e mia moglie deve avere pensato che io fossi pazzo, a vedermi svegliare così alle 4 del mattino”, scherza Masaya. Quella notte comunque nasce il primo schizzo: una suola in mezzo a un fazzoletto di stoffa, che si potesse adeguare a seconda delle dimensioni del piede. “Il giorno dopo sono andato al ferramenta, ho comprato della gomma liquida, e poi sono andato in laboratorio e ho provato a costruire un prototipo con un pezzo di cotone che ho trovato lì, mi piaceva il colore. Normalmente furoshiki è quadrato e ho seguito quel formato all’inizio”.

Il passo successivo è stato presentare il prototipo al capo. Un capo speciale: perché Marco Bramani è presidente, ma anche direttore artistico. “Una cosa che oggi è rara, ma in Italia era abbastanza comune”, sottolinea Masaya, che nel nostro paese lavora come designer da quando aveva vent’anni. Bramani vede il prototipo e gli piace. “Ha detto: bello. Anche lui si era dimenticato della domanda che mi aveva fatto”.  

Per Vibram questo modo di fare le cose non è poi così strano. Molte volte le idee partono in un modo e cambiano durante il percorso, soprattutto quando viene intercettata dai clienti, quelli già affezionati al marchio che frequentano i negozi ufficiali del brand (Milano, Montebelluna e Boston) e quelli potenziali, che di Vibram non hanno mai sentito parlare. 

Dunque, a marzo 2011 le Furoshiki vengono disegnate, definite, il primo prototipo vede la luce. Poi attraverso il team che si occupa dei test, “abbiamo cominciato a definire che genere di scarpa fosse, con quale genere di suola, quale mescola usare, come costruirla e produrla”, ricorda Masaya. I prototipi arrivano dall’ufficio cinese. “Tu fai un disegno e il giorno dopo c’è già il prototipo, anche grazie al fuso orario.” 

Masaya, Vibram, le suole e l’innovazione

“Noi di Vibram siamo terziari, offriamo una componente della scarpa. Ma è la parte principale, la suola. E pensiamo che la suola dovrebbe innovare ancora di più. Il nostro pensiero è innovativo, le nostre scarpe devono essere stimolanti per il settore, senza essere direttamente competitor dei nostri clienti, e al tempo stesso stimolante per l’azienda, per innovare internamente.  Tutto attraverso questo design avanzato”. Ovvero attraverso i modelli di scarpe che Vibram produce direttamente, ovvero Five Fingers e Furoshiki. Ed eventuali altri che potrebbero arrivare in futuro.

In Oriente noi soffriamo la cultura europea della scarpa, che seguiamo, ma che non è adatta ai nostri piedi

L’arrivo di Furoshiki ha rappresentato per Vibram l’iniezione di qualcosa di diverso, di nuovo. “In Oriente noi soffriamo la cultura europea della scarpa, che seguiamo, ma che non è adatta ai nostri piedi. Quindi abbiamo studiato i piedi, e come si modificano anche nel corso della giornata”, racconta Masaya, che durante la nostra conversazione mi mostra svariate immagini dalle ricerche che sono state fatte durante lo sviluppo di Furoshiki. Un progetto che sicuramente ha cambiato qualcosa all’interno dell’azienda lombarda. “Ci vorrà del tempo per vederlo perché la tradizione dell’azienda è comunque europea, ma al tempo stesso per esempio la Cina, che prima era il luogo della produzione, oggi è diventa potenzialmente il mercato principale. Da lì potrebbe nascere qualcosa, soprattutto in un mercato saturo in cui stiamo discutendo come e cosa sarà una produzione di nicchia”. In questo, Furoshiki ha stimolato la conversazione. 

Il bello, il brutto e il marketing

“Io ho iniziato a lavorare in Italia negli anni 80”, ricorda Masaya Hashimoto. “Ho conosciuto i maestri, Memphis, Alchimia. Da Alberto Rosselli ho imparato che uno degli scopi del design è creare differenza. Essere diverso può essere visto in opposizione, ma crea oggetti ibridi, interessanti.

Italia e Giappone sono in sintonia su tante cose. Anche sul design, l’approccio è diverso, per un giapponese il metodo caotico italiano è interessante. Per questo sono qua e non in America o Inghilterra o Germania. A me l’ordine programmato non piace. Qui in Italia ogni volta che ci incontriamo, discutiamo il cambiamento. Quando c’è una idea brillante, diciamo ‘bello’. E io aspetto sempre questa parola, ‘bello’, che non è solo estetica, ma anche soluzione intelligente. 

Ho studiato in Giappone e all’età di 22 anni poi ho cominciato a lavorare qui. Oggi non c’è un maestro, un pensiero di design, personalità forti che propongano qualcosa a prescindere che venda o meno. Adesso è tutto omogeneo, comanda il marketing, la vendita. Mi mancano un po’ gli anni Ottanta”. 

Il lancio sul mercato

Le Furoshiki vanno in vendita nel 2015, ma è nell’anno precedente che fanno il loro debutto, a Pitti Uomo. Le calzature arrivano nella fiera di moda maschile più importante del mondo dopo una incubazione di quasi 4 anni, durante i quali la discussione all’interno dell’azienda è stata lunga, ricorda Masaya. “A chi vendere, come vendere”, prima di tutto. Ma non solo. Alcune soluzioni hanno richiesto molto tempo. Per il tessuto è risultata cruciale la collaborazione con EuroJersey, il giusto partner con cui realizzare la tecnologia di iniezione sul tessuto che conferisce l’inedita continuità della suola con la tomaia. “Attaccare il tessuto alla suola non è stato semplice, abbiamo dovuto fare molte prove”. Alla fine viene inventato un metodo completamente nuovo, che utilizza il poliuretano.

Noi di Vibram siamo terziari, offriamo una componente della scarpa. Ma è la parte principale, la suola. E pensiamo che la suola dovrebbe innovare ancora di più

La grande sfida di design di Furoshiki è progettare un prodotto bidimensionale che si trasforma in tridimensionale, avvolgendosi e prendendo la forma di un piede che sarà, per forza di cose, sempre diverso. “Nel primissimo modello non veniva benissimo l’estetica, sembrava un po’ un involtino primavera”, sorride Mayasa. “Il miglioramento è stato molto lungo, ci sono volute due o tre generazioni di modelli”. Ma quando la scarpa viene messa in vendita, cinque anni fa, i “maniacali delle scarpe”, come li chiama il designer, distorcendo in modo efficacissimo l’italiano, le comprano subito. “Anche la sera della presentazione al Pitti, andiamo in discoteca e c’era un ragazzo vestito di nero con una scarpa strana”. Erano ovviamente delle Furoshiki. Gli chiedo se avesse provato ad avvicinarlo. “Certo, sono andato a chiacchierarci e mi ha detto che le aveva appena comprate nel negozio di Milano. Le aveva trovate interessanti e belle, e voleva provarle”.

Furoshiki Evo

Furoshiki, oggi

Le altre scarpe di Vibram, le Five Fingers, sono esplicitamente sportive. Furoshiki invece è la scarpa versatile, che si adatta alle occasioni.  Casual nel senso più puro del termine. “Io le utilizzo in viaggio, le uso in aeroporto. Le uso per lo yoga”, racconta Masaya. “Chi le usa inventa un modo per usarle. Hanno quasi dieci anni ma ancora stiamo ricevendo dei feedback per migliorarle”. Sono delle calzature che vivono in simbiosi con il sacchettino con cui vengono vendute, una confezione realizzata con lo stesso stampo, per non sprecare tessuto, e che permette di avere sempre una seconda calzatura comoda con sé, “magari mi chiamano per fare un aperitivo dopo lavoro e voglio cambiare la scarpa”.

Quella in commercio attualmente è la terza generazione di Furoshiki. Il primo è “l’involtino primavera”. Nella seconda sono state cambiate punta e ali. L’ultimo in ordine di tempo è Furoshiki Evo, un nome che fa da eco alla suola realizzata in etilene vinil acetato (eva), più alta di quella dei modelli precedenti.

Design trattoria

Le Furoshiki Evo nascono come modello per intercettare un nuovo pubblico, sono pensate per chi non riesce a fare a meno di una suola alta, in città soprattutto. Un adattamento del design all’utente che è nei valori di Vibram e nella filosofia di Masaya, secondo il quale compito del designer è anche capire per chi sta... cucinando. “Io ce l’ho nel sangue, vengo da una famiglia di ristoratori, dalle trattorie giapponesi”, spiega. “Se da me arriva un cliente, un ospite, magari è stanco, ieri sera ha fatto festa e ha bevuto troppo, allora io gli presento il menù di oggi, ma lo personalizzo, o magari gli dico di bere solo del tè verde e non mangiare. Invece oggi vedo tanti posti dove non c’è contatto tra cucina e chi mangia, il cibo viene preparato a prescindere da chi lo consumerà. Io penso che il designer deve capire per chi sta cucinando, cosa dice l’utente. Questa procedura di definizione del prodotto è importante e va ottimizzata”.  E ritorna al senso del design, oggi. “Il mercato è saturo, il cambiamento deve esserci. E non può essere solo il ritorno all’artigianato. Per le industrie la sopravvivenza è nel mercato di nicchia, ora devono reinventare, chi inizia a farlo ora sopravviverà. Chi prima propone prenderà in mano l’andamento del mercato”. 

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