Adhocracy: la terza rivoluzione industriale

In mostra al New Museum di New York, una raccolta di segnali punta a una gamma di nuove possibilità sociali, politiche, economiche ed artistiche generate da nuovi modi di produzione.

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Nell’aprile 2012 l’Economist annunciò “la terza rivoluzione industriale”, affermando che i nuovi materiali e le nuove tecnologie (soprattutto l’automazione e la stampa tridimensionale) avrebbero trasformato radicalmente i modi e i luoghi di produzione dei beni. La mostra "Adhocracy", attualmente in corso al New Museum di New York, assume questo cambiamento produttivo come premessa, ma si concentra sul chi e sul che cosa di questa nuova epoca: oggi chi fabbrica gli oggetti, e di che genere di oggetti si tratta?
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"Adhocracy", nella foto installazioni e sistema espositivo realizzato per la mostra al New Museum di New York. Photo Benoit Palley

La risposta sta in venticinque progetti (oggetti statici, per la maggior parte, ravvivati da qualche filmato e da un paio di costruttori umani) esposti su una griglia modulare di piedestalli di legno grezzo, che conferiscono all’ambiente un’atmosfera da salone della scienza. Parte della ‘scatola del Meccano’ dei pezzi geometrici comuni del gruppo Open Structures, intesa come base a partire dalla quale “tutti progettano per tutti”, il sistema espositivo della mostra è di per se stesso un esempio di quei “sistemi aperti, strumenti che consentono l’auto-organizzazione e piattaforme orientate alla collaborazione” che, come argomenta Joseph Grima, curatore di "Adhocracy", contraddistinguono “la massima espressione del progetto” all’interno di questo nuovo paradigma di fabbricazione distribuita.

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"Adhocracy", vista della mostra al New Museum di New York. Photo Benoit Palley


Ma per fortuna la mostra non è un intransigente elogio della condivisione open-source e delle sue potenzialità di salvazione del mondo e via dicendo. Benché Grima e i suoi colleghi Elian Stefa ed Ethel Baraona Pohl contestualizzino i progetti contemporanei nella precedente tradizione di “resistenza all’omogeneità dell’industrializzazione e di valorizzazione della dimensione individuale” rappresentata dall’opera di progettisti come Yona Friedman e Giancarlo De Carlo, sono molto attenti a includere progetti più discutibili – come la pistola che si può fabbricare con una stampante tridimensionale di Defense Distributed, l’esperienza trasgressiva urbana di UX a Parigi, e la sedia DRM (cioè rispettosa dei diritti di proprietà intellettuale) di Thibault Brevet, che collassa dopo essere stata usata per otto volte – in un commento critico sul concetto di proprietà nella cultura delle reti.

 

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"Adhocracy", vista della mostra al New Museum di New York. Photo Benoit Palley


In certi casi, come per la scheda Arduino (un microcontrollore a basso costo, facile da usare e open-source), gli oggetti esposti sono di fatto gli strumenti e i sistemi che Grima considera emblematici del nuovo ruolo del design. In altri, con meno trasparenza, la piattaforma dell’innovazione (per esempio Kickstarter) è rappresentata dagli oggetti di per sé banali che produce, tra cui un dock per iPod perfezionato e l’orologio Pebble, realizzato con l’e-paper. Il che ha l’infelice conseguenza di mettere in ombra l’affermazione, per altro intrigante, di Grima: che in questo caso i veri ‘designer’ sono i fondatori di Kickstarter, gli imprenditori del web Perry Chen, Yancey Strickler e Charles Adler, e non il progettista del Pebble Eric Migicovsky, il quale andrebbe piuttosto ridefinito come artigiano, ovvero maker.

 

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"Adhocracy", vista della mostra al New Museum di New York. Photo Benoit Palley


L’installazione dello studio belga Unfold esplora più a fondo la complessità che le nuove tecnologie produttive hanno introdotto nel rapporto tra produttori e progettisti. Nella loro Stratigraphic Manufactory (o “Manifattura stratigrafica”), allestita nella vetrina su strada del New Museum, una ceramista locale usa una stampante tridimensionale per produrre le sue versioni dei progetti di Unfold. Nessuno dei pezzi che realizza è interamente di sua creazione, e tuttavia nessuno è identico all’altro: tutti recano le tracce del produttore insieme con quelle del progettista. Il risultato è un elogio dell’estetica dell’imperfezione, della spontaneità e della differenza, portato inevitabile del design come gesto produttivo di collaborazione invece che di ciò che Grima definisce “la precedente definizione di gesto eroico di origine individuale”.

 

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"Adhocracy", vista della mostra al New Museum di New York. Photo Benoit Palley


Qualche passo più in là, tuttavia, c’è Be Your On Souvenir (“Diventa il souvenir di te stesso”) del blablaLAB, che consiste in un piedestallo su cui i visitatori della mostra possono salire per sottoporsi alla scansione di un Kinect modificato ed essere quindi riprodotti sotto forma di modello tridimensionale. Se il nuovo ruolo del designer consiste nel consentire la fabbricazione, questa installazione pare implicare che fabbricare oggi può essere null’altro che una diversa forma di consumo e non una produzione creativa.

 

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"Adhocracy", vista della mostra al New Museum di New York. Photo Benoit Palley


Questo tipo di ambiguità è uno dei punti di forza della mostra (anche se qualcuno potrebbe considerarlo un punto debole): presentando l’“istantanea” di una situazione culturale diffusa” Adhocracy finisce con l’essere una raccolta intrinsecamente contraddittoria di segnali che puntano a una gamma di nuove possibilità sociali, politiche, economiche ed artistiche generate da nuovi modi di produzione invece che una serie di esempi messi insieme per illustrare tesi accuratamente argomentate. Ne risulta, coerentemente, che la mostra costituisce essa stessa un’eccellente base grazie alla quale i visitatori possono riflettere e configurare ipotesi di scenari futuri; nonché, senza dubbio, una cocente delusione per chiunque speri di sentirsi dire con precisione qual sia il significato della terza rivoluzione industriale.

 

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"Adhocracy", vista della mostra al New Museum di New York. Photo Benoit Palley

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