Common Roots: Design Map of Central Europe

Al Design Museum di Holon, una mostra rivendica il tema della produzione creativa tra Germania e Russia dalla fine della Seconda Guerra Mondiale a oggi, in una complessa, e non risolta, immagine dell'identità di un presente ambiguo.

Al Museo del Design di Holon, vicino a Tel Aviv, "Common Roots: Design Map of Central Europe", a cura di Agnieszka Jacobson-Cielecka, rivendica il tema – al primo sguardo esplicito – della produzione creativa nell'area tra Germania e Russia dalla fine della Seconda Guerra Mondiale a oggi. Ma subito la mostra inizia a porre domande (troppe per poter rispondere), illustra posizioni e perfino si contraddice, in una complessa – e non risolta – immagine dell'identità di un presente ambiguo.

"Common Roots" propone una definizione molto personale di Europa centrale, includendovi i Paesi Baltici ma non l'Ucraina né la Bielorussia. Jacobson-Cielecka adotta il criterio quanto mai convincente dell'"annessione al blocco orientale del 1946, della separazione dall'Unione Sovietica del 1989 e dell'ingresso nell'Unione Europea a partire dal 2004 o dal 2007". E, tuttavia, la mostra affronta solo superficialmente le differenze tra le Repubbliche socialiste sovietiche, e non cerca di spiegare come fattori quali la "finestra sull'Occidente" dell'Estonia e la dittatura romena di Nicolae Ceausescu possano aver condizionato questa eredità comune.

La mostra è suddivisa in due sezioni: dal 1945 alla caduta del Muro di Berlino e da quel momento a oggi. Sotto una tenue luce gialla i prodotti storici appaiono artefatti anacronistici, tradendo il fatto che parecchi, come la sedia da giardino Uovo di Peter Ghyczy sono ancora in produzione come 'classici' del design e incassano migliaia di euro. In questa sezione della mostra l'attenta lettura dei testi illustrativi permette di approfondire le ingannevoli impressioni iniziali.
"Common Roots: Design Map of Central Europe", vista della mostra al Design Museum di Holon, Israele
"Common Roots: Design Map of Central Europe", vista della mostra al Design Museum di Holon, Israele
A prima vista, per esempio, le forme sferiche e i precisi quadranti analogici dell'orologio-barometro di Helle Gans evocano una società industrializzata impegnata nell'evoluzione tecnologica. In realtà l'apparecchio fu presentato alla mostra "Ruum ja Vorm" ("Spazio e forma") del 1969, che era dedicata a oggetti liberi da vincoli funzionali e segnò il passaggio dall'industrial design al design propriamente detto. I disegni tecnici dell'orologio-barometro furono anche pubblicati nel 1971 sulla rivista Kunst ja Kodu ("Arte e casa") come progetto fai-da-te, originaria alternativa a uno scenario domestico sempre più standardizzato.

E tuttavia questi oggetti rappresentano una visione ottimistica di quel che il comunismo avrebbe potuto essere: come spiega Jacobson-Cielecka "le concezioni progettuali elaborate in questo periodo rappresentano un mondo ideale che aveva poco a che fare con l'aspetto delle abitazioni reali". Ma, a giudicare dalla prevalenza nella sezione contemporanea delle serie limitate e dei prototipi, la situazione non è sostanzialmente cambiata. Al consumatore medio non sono più accessibili oggetti dal progetto creativo come quelli esposti e la produzione in grande serie non è più in sintonia con le proposte sperimentali. Per giustificare le loro scelte i curatori sostengono che i processi industriali "rendono l'idea originale implicita praticamente indecifrabile".
Peter Ghyczy: Garden Egg Chair, 1968
Peter Ghyczy: Garden Egg Chair, 1968
Sarà così, ma non è che un commento a margine al modo in cui si vive oggi e a come ciò dia forma all'identità più di quanto non faccia un'astratta idea di patrimonio culturale. Come afferma la saggista polacca Dorota Maslowska in un'intervista filmata "siamo molto più creativi dei nostri figli […] Oggi tutto è prefabbricato, non c'è bisogno di inventare più nulla". Osservazione che riecheggia con ironia nell'asse-orologio di Piotr Stolarski, inedita materia grezza nel nostro attuale paesaggio dell'abbondanza. E comunque l'assenza di difficoltà logistiche non ha necessariamente condotto alla svolta filosofica che ci saremmo potuti aspettare da nuove, 'libere' società di questo genere.

Questa esposizione di oggetti dell'èra postcomunista non apparirebbe fuori luogo in una delle fiere commerciali di oggi, soprattutto visto il raggruppamento per paese degli oggetti.
Maxim Velcovský, The Vase of Vases, 2008
Maxim Velcovský, The Vase of Vases, 2008
In realtà, questa esposizione di oggetti dell'èra postcomunista non apparirebbe fuori luogo in una delle fiere commerciali di oggi, soprattutto visto il raggruppamento per paese degli oggetti. La scelta di organizzare così la mostra appare discutibile, di fronte all'affermazione dei curatori secondo i quali il design contemporaneo trascende i confini nazionali. Come essi ammettono è difficile catalogare una figura come quella di Viktor Matic, designer nato vicino a Sarajevo e cresciuto in Croazia, in Germania e in Italia, che ha studiato a Bolzano e lavora a Londra. Collocare il suo lavoro nella categoria della Croazia appare eccessivamente semplicistico.
A sinistra: Helle Gans, orologio barometro, 1967. A destra: Janez Suhadolc, sedia Lajt, 2012
A sinistra: Helle Gans, orologio barometro, 1967. A destra: Janez Suhadolc, sedia Lajt, 2012
Sarebbe forse stato più utile raggruppare gli oggetti secondo un ulteriore livello di categorizzazione, le cui colorite annotazioni si intrecciano nello spazio, tra cui "Fascino del popolare", "Battute ironiche" e "Nuova eleganza". Al visitatore, tuttavia, queste categorie appaiono puramente arbitrarie. Questa ambiguità svela l'autocoscienza del design contemporaneo, la sua ossessione per le trasformazioni visive e per la stratificazione delle citazioni. Nel 2008, quando Maxim Velcovský realizzò il suo Vaso di vasi con lo spazio negativo racchiuso tra recipienti di vetro e di porcellana, si trattava di una prospettiva nuova; cinque anni dopo questa sperimentazione sulle tradizionali superfici decorative della colata in barbottina è diventata quasi un rito di passaggio inevitabile nelle scuole di design d'Europa e d'Asia. Un tempo il concetto di 'cultura del copia-e-incolla' era una presa di posizione contro il design dell'èra sovietica; oggi è indiscutibilmente una delle principali qualità degli oggetti che realizziamo.
Ruumilabor, lampade 5 L, lampada Pear Compot, 2006
Ruumilabor, lampade 5 L, lampada Pear Compot, 2006
D'altra parte, alcuni dei prodotti più affascinanti in mostra non cercano di essere troppo espliciti, e sono più accattivanti per il loro silenzio. La sedia Lajt di Janez Suhadolc, per esempio, è una semplice seduta di pino e alluminio che pesa meno di un chilo; non mette in gioco ironie e riferimenti, ma conquista per l' 'eleganza' come principio funzionale più che come stile. Non sorprende che il designer abbia 71 anni: altri dei presenti in mostra, certuni di poco più anziani delle loro giovani democrazie, forse hanno bisogno di un po' di tempo per raggiungere questa fiduciosa nitidezza. E per di più manca loro la lussuosa situazione di cui godevano i designer più anziani, il cui lavoro – negli uffici progettazione delle fabbriche nazionalizzate – un tempo era garantito. Ciò spiega forse la fissazione contemporanea per l'identità del design e per la scrittura concettuale: forse le uniche risorse che i giovani creativi continuano a rivendicare.
A sinistra: Viktor Matic, libreria WWW, 2011. A destra: Stanislav Katz, lampada Bomb, 2007
A sinistra: Viktor Matic, libreria WWW, 2011. A destra: Stanislav Katz, lampada Bomb, 2007
I testi dei curatori offrono preziose riflessioni su questi temi, soprattutto sulle trasformazioni del sistema industriale dominante. La mostra avrebbe avuto molto da guadagnare dall'aggiunta di maggiori filtri curatoriali, svelando aneddoti interessanti come la storia di Marko Turk, il progettista sloveno di microfoni e prodotti elettronici la cui "impresa individuale era competitiva sul mercato internazionale con quella dell'ISKRA, azienda con qualche migliaio di dipendenti". Queste storie avrebbero aggiunto sfumature a una prospettiva dalle polarizzazioni convenzionali, irreparabilmente spezzata nel 1989, e avrebbero anche suggerito modelli imprenditoriali ai giovani professionisti.
A sinistra: Aryeh Navon, <i>On the Cobblers' Strike</i>, 1938. A destra: Aryeh Navon, <i>Israeli Underpants</i>, 1939. La didascalia dice: "Cosa ci fai nei miei pantaloni?" / "Verifico che siano stati fatti in Israele."
A sinistra: Aryeh Navon, On the Cobblers' Strike, 1938. A destra: Aryeh Navon, Israeli Underpants, 1939. La didascalia dice: "Cosa ci fai nei miei pantaloni?" / "Verifico che siano stati fatti in Israele."
Da visitatore, resta una domanda: perché qui a Holon? Supponendo che il design contemporaneo centroeuropeo rifletta una tendenza planetaria comune perché non limitarsi a esporre prodotti locali? (Perfino Galit Gaon, direttore del Museo del Design di Holon, ha osservato che il design di quest'area "sembra design israeliano".) E poi, se esiste un'identità specifica del design centroeuropeo, perché ospitare in Israele una mostra di questo genere senza collegarla ai numerosi israeliani di origine centroeuropea?
A sinistra: GOGO - Piotr Stolarski in collaborazione con Marysia Makowska, Log Clock, 2007. A destra: Paulius Vitkauskas, KU-DIR-KA sedia a dondolo, 2006
A sinistra: GOGO - Piotr Stolarski in collaborazione con Marysia Makowska, Log Clock, 2007. A destra: Paulius Vitkauskas, KU-DIR-KA sedia a dondolo, 2006
La ricerca d'archivio di Yael Taragan sulle origini dell'industria tessile israeliana nell'immigrazione sionista offre un eccellente punto di partenza. Il fumetto The Melting Pot di Friedel Stern documenta il progetto degli anni Cinquanta del Novecento di costruire un'identità israeliana dal miscuglio degli immigrati attraverso la creazione di una classe operaia, mentre Lo sciopero dei calzaturieri di Arieh Navon mostra la durezza del conflitto tra gli ideali socialisti, il consumismo patriottico e il basso costo delle importazioni. La prospettiva di Taragan avrebbe dovuto essere ampliata, fino a svelare questo genere di realtà dell'identità culturale successiva alla fine dell'Unione Sovietica. Se la cultura va considerata una risorsa reale, trasmessa geneticamente, allora sarebbe stato interessante studiare le condizioni della sua sopravvivenza, tanto in un incubatore di libera espressione quanto nell'ibernazione dell'inverno della repressione. Tamar Shafrir (@tamars)
A sinistra: Allt Studio, panchina Lowstack, 2011. A destra: Bevk Perovic Arhitekti, serie di lampade da terra Smoke, 2009
A sinistra: Allt Studio, panchina Lowstack, 2011. A destra: Bevk Perovic Arhitekti, serie di lampade da terra Smoke, 2009
Fino al 23 febbraio 2013
Common Roots. Design Map of Central Europe
Design Museum Holon
Pinhas Eilon St. 8, Holon
"Common Roots: Design Map of Central Europe", vista della mostra al Design Museum di Holon, Israele
"Common Roots: Design Map of Central Europe", vista della mostra al Design Museum di Holon, Israele

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