In fatto di biennali e di festival, l'architettura e il design, quanto a numeri, stanno rapidamente guadagnando terreno sull'arte contemporanea. Le biennali (ce ne sono oltre 150, che abbracciano i settori culturali dell'arte, dell'architettura e del design contemporanei) spesso fioriscono in luoghi come Venezia, Istanbul e Gwangju, dove esiste una tradizione d'arte radicata; inoltre più di 60 città oggi ospitano fiere commerciali e 'settimane del design' di vario genere. Data la vocazione culturale della biennale, che si contrappone alla formula dei saloni, è pratica sempre più diffusa in queste manifestazioni chiamare un gruppo di curatori internazionali a cercare di spezzare i concetti angusti e strettamente disciplinari di design e di architettura. Una biennale, in altre parole, è un campo di prova in cui il progetto (inteso come forma di prassi culturale) sfida i suo stessi dogmi, trascende i suoi limiti e affronta nuove e inedite problematiche sociali. La quarta edizione della Biennale del Design di Gwangju inaugurata il 1° settembre, diretta da Ai Weiwei e da Seung H-Sang, è eccezionale proprio per questi motivi: è al 100% libera dalle lampade, dalle sedie e dai divani che occupano tanta parte delle riviste di design ed è profondamente politica.
La cosa interessante della mostra è che l'interpretazione del noto principio 'tutto è progetto' non ha nulla da spartire con i banali elogi della creatività a tutto campo ("evviva, genio e invenzione si trovano anche nella scopa e nella panchina disegnata per i barboni") e non riguarda l'inutile, il laterale, il poetico, in altre parole quella sfera del design concettuale che produce milioni di progetti effimeri, emozionali, per lo più cattive imitazioni di opere d'arte o derivazioni infinite da Munari (vasche a tre stanze per i pesci rossi, posate in plastica di lusso e altri gadget da bookshop di museo).
Una biennale è un campo di prova in cui il progetto affronta nuove e inedite problematiche sociali