Raccontare gli oggetti e il mestiere del designer

Odoardo Fioravanti si "mette in mostra" alla Triennale di Milano, dove per un mese intero, dal martedì alla domenica, trasferisce il proprio studio. Un laboratorio aperto al pubblico "per avvicinare la gente agli oggetti".

Per la preparazione di questa mostra ti sei confrontato con un maestro del design come Richard Sapper. Quali sono stati gli spunti di riflessione più interessanti?
Siamo andati a cercarlo ed è stato abbastanza complicato perché Sapper è una persona che non ama i clamori, non ama vivere nel mondo patinato del design. Per me è il riferimento a una certa cultura tedesca, la cultura di un design a volte anche severo, ma che sa essere espressivo, pur non diventando troppo pornografico. È l'incontro con un mondo che mi affascina e da cui mi voglio fare affascinare ancora di più. Non è stato un vero e proprio curatore perché la mostra è stata strutturata con un gruppo di lavoro: Ali Filippini, sponda culturale per i contenuti del catalogo e della mostra, Chiara Alessi per il progetto editoriale del catalogo, Paolo Giacomazzi per la grafica e il progetto d'allestimento ed Emanuele Zamponi per la fotografia Tutti molto giovani: con Sapper è stato un bell'incontro di generazioni diverse. Ci ha dato una mano a costruire la mostra e alla fine si è innamorato del mio lavoro e si è offerto di scrivere l'introduzione.

Abbandonando la formula della mostra tradizionale (che tu definisci "foto ricordo"), la tua esposizione non si limita a mettere in fila una serie di progetti, ma prevede anche una residenza. Prevede cioè che tu "traslochi" per un mese negli spazi della Triennale. Ci racconti cosa succederà? Lavorerai a un progetto preciso?
Mi è stato chiesto di fare una mostra retrospettiva, ma in realtà io lavoro da così pochi anni che mi sembrava strano. Così da subito abbiamo pensato a una mostra prospettiva, cercando delle chiavi per il futuro prossimo e non semplicemente raccontando il passato – altrettanto prossimo – del mio lavoro. Il racconto del design sembra avere ritmi lenti e distanti dal pubblico. Il pensiero dietro della mostra è mettere al centro il farsi del lavoro. Come in un concerto musicale hai una forma di produzione dell'opera d'arte dal vivo, estroflessa rispetto al pubblico. Allo stesso modo, abbiamo cercato un corrispettivo nel mondo del design. Non tanto per fare una messa in scena straordinaria, ma per raccontare la quotidianità del design e avvicinare la gente agli oggetti. La gente che passa a vedere la mostra potrà chiedermi di spiegargli quello che desidera. Gli oggetti sono disposti su grandi tavoli con display esplicativi. Io lavoro a una normale scrivania, come farei in studio: schizzo, faccio modellini. Crescerà la mole di oggetti e, alla fine della mostra, ci sarà una specie di aggiornamento rispetto all'inizio. Al contrario della foto ricordo, la mostra sarà un po' come una foto mossa, dove si vede che mi muovo. Mi muovo così tanto che sono ancora lì a farlo. Il mio vuole essere un gesto divulgativo e non soltanto comunicativo.

Sono previsti incontri con il pubblico e perfino con i bambini. È importante quindi per te raccontare quello che fai?
È previsto un calendario di iniziative (workshop con i bambini, incontri con le scuole superiori e le università...). Ci sono designer che lavorano in maniera ipercomunicativa e vestono gli oggetti del messaggio che recano. Nel mio caso questo succede meno e mi piace l'idea di accompagnare le persone a ritroso a scoprire gli oggetti. E anche il display della mostra ideato da Paolo Giacomazzi è pensato in questo senso. Di ogni oggetti racconteremo due o tre step: il prototipo, l'oggetto da cui abbiamo preso ispirazione, una boutade ironica a ridosso dell'oggetto... Cerchiamo di dare più livelli di lettura in modo che chiunque possa trovare dei significati in più rispetto all'oggetto sullo scaffale del supermercato. Sono convinto che la gente si stia interessando di più al design, penso a fenomeni come Ikea, che stanno evangelizzando le persone dal punto di vista del design. D'altra parte, penso che alcuni oggetti siano troppo comunicativi, quasi pornografici: tolgono alle persone la fantasia. Per citare un amico, se una sedia riporta un sedere, forse alle persone non resta più niente da pensare. Quel pezzettino che manca, lo devono mettere loro. È un passo indietro, un design che non dice tutto quello che c'è da dire, che lascia spazio al pensiero, un po' di erotismo.

Il titolo – Industrious design – pone l'accento sul rapporto del design con la produzione e con le aziende. Qual è e come si sviluppa il tuo rapporto con le aziende? È ancora possibile instaurare un vero dialogo?
Ho una grande predilezione per l'industria, perché fa sì che il tuo messaggio arrivi a tantissime persone. Se il tuo messaggio prende la forma di una sedia di plastica, di una sedia di legno o di un cavatappi, può darsi che arrivi lontano, a persone che nemmeno sospettavi. Questa è la cosa che mi emoziona di più. E siccome un lavoro del genere lo fai solo per le emozioni che ti dà, questa è l'emozione che mi interessa avere dal mio lavoro. L'industriosità è un termine che abbiamo scelto anche perché faceva riferimento ai cambiamenti in atto nella professione. Oggi c'è un'espansione della figura del designer, che assorbe all'interno del suo piccolo studio-azienda dei pezzi di workflow, che prima facevano parte della filiera produttiva. Ci sono aziende storiche di design italiane a cui interessa ancora essere parte del processo di sviluppo di un prodotto, ma la maggior parte delle nuove aziende è sempre meno interessata. Lo sforzo generale dei designer è assorbire i pezzi di workflow che l'azienda non riesce più a fronteggiare. Succede così che i designer sviluppino la parte tecnica, l'ingegnerizzazione fino a un dettaglio che prima era impensabile. O addirittura trovino fornitori per l'azienda, mettano in comunicazione attori differenti per far sì che nasca un oggetto nuovo. O, ancora, arrivano anche alla comunicazione: fanno le foto, danno l'idea dell'advertising. È come se il designer mettesse in scena una grande fiction di un oggetto che ancora non esiste, prepara tutta la sua vita e vende questo pacchetto alle aziende, che così avvizziscono in quello che è il loro ruolo tradizionale e diventano una sorta di distributore evoluto, che si occupa del rapporto con i clienti.

Come consideri invece quella parte di design più sperimentale che nasce dalla collaborazione con le piccole gallerie e sfocia, almeno all'inizio, in serie limitate?
Per me, è croce e delizia. Il problema è che molte persone si sono buttate in questo campo perché vedevano che non c'erano le regole ferree dell'industria, ma nemmeno arte dove c'è un problema di originalità molto più spinto. In questo filone c'è una serie di persone che lavora molto bene. È però un lavoro sartoriale, che per me rimane distante dalla gente comune. Anche per motivi di prezzo. Posso comprare un tavolo di un designer olandese che mi fa un racconto lunghissimo – e se non me lo spiega, non lo capisco – e pagarlo 50.000 euro. Ecco, questo, per me, non è design. Un paio di idee sul design: deve essere una cosa che una quantità di persone apprezzabile può permettersi e di cui tu puoi produrre delle repliche industriali. Se di un oggetto posso fare solo 100 copie, non è design. Quella ricerca sul design, come Paolo Ulian – un grandissimo secondo me – o lo studio Libertiny – che ha un tocco magico – è una specie di limite superiore del design. È come guardare le stelle: sono lontane, inarrivabili, ti danno l'ispirazione, ma hanno uno scopo diverso.

Odoardo Fioravanti. Industrious Design
22 settembre — 24 ottobre 2010
Triennale di Milano

Ultimi articoli di Design

Altri articoli di Domus

China Germany India Mexico, Central America and Caribbean Sri Lanka Korea icon-camera close icon-comments icon-down-sm icon-download icon-facebook icon-heart icon-heart icon-next-sm icon-next icon-pinterest icon-play icon-plus icon-prev-sm icon-prev Search icon-twitter icon-views icon-instagram