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Intervista a Bureau Detours

Benny Jepsen di Bureau Detours racconta a Domus il metodo di lavoro e i progetti futuri del movimento danese di artisti e architetti. Testo di Elena Sommariva.

Mi puoi raccontare la storia di Bureau Detours? A cominciare dalla scelta del nome, e poi vorrei sapere quanti siete, quando avete cominciato, dove vivete…
Il nome Bureau Detours è nato durante l'esposizione presso il "Kunstbygningen" di Aarhus (MMiM), in Danimarca. Il nome Bureau Detours dice, in modo semplice e diretto, chi siamo e cosa facciamo. La parola Bureau si riferisce a un gruppo di persone, la comunità, l'ufficio, ma anche alle agenzie stampa, che sono superveloci nel divulgare informazioni e notizie. Noi lavoriamo alla stessa velocità, dall'idea al progetto o al modello, non come avviene nei grandi studi d'architettura. Invece la parola "Detours" rappresenta un invito a visitare la propria città, a uscire dai percorsi abituali… A fare, appunto, una deviazione. Siamo circa venti persone, e seguiamo – in un modo o nell'altro – la maggior parte dei progetti. In realtà, con noi lavorano molte più persone, diversi da progetto a progetto. Lo studio è aperto, e in continua crescita, a seconda del progetto. Chiunque voglia contribuire, e pensi di poter vivacizzare il nostro spazio comune con vibrazioni positive, è il benvenuto. Detours ha diversi studi sparpagliati nel paese, ma siamo soprattutto ad Aarhus, Kolding, Odense e Copenhagen... Recentemente però abbiamo varcato i confini della Danimarca e oggi Detours è presente anche in Germania e Norvegia.

Le vostre installazioni, come The Opera ad Arhus e The Splash al Danish Centre for Architecture, sembrano vere e proprie sculture. Si arrampicano in modo ardito e sembrano quasi sul punto di crollare sfidando la forza di gravità. Invece, sono spazi abitabili con precise funzioni. Come nascono queste forme bizzarre? Quali sono i materiali e le tecniche che utilizzate più spesso?
Noi progettiamo a scala reale, quindi il risultato finale nasce da un processo di collaborazione. Partiamo da un'idea iniziale e, a volte, da un modellino o da un disegno che descrive il concetto, e poi procediamo in modo libero, improvvisando mentre costruiamo. Ma Detours non segue regole durante questo processo. Lavoriamo in qualsivoglia metodo ci sembri interessante. Questo significa che nei progetti a venire potremmo anche lavorare in modo del tutto diverso. Anche i nostri materiali variano a seconda del contesto. Quello che troviamo, quello che meglio esprime l'idea del momento, o anche se ci sono sponsor che contribuiscono con le loro donazioni… Tutto entra in gioco. Materiali di riciclo, rimanenze di magazzino… E legno, tanto legno.

L'unione fa la forza. Ma a volte essere in troppi rende difficile coordinare il lavoro e arrivare a una conclusione. Qual è il vostro metodo di lavoro? Quali i pro e i contro di essere tanti? Come riuscite ad applicare una mentalità open source a un progetto di architettura e design?
Hai proprio ragione. Il nostro metodo di lavoro di solito è questo: partiamo da un'idea o da un concetto, ma all'interno di quest'idea, lasciamo assoluta libertà: di espansione, di espressione, qualsiasi cosa… Di solito abbiamo quello che chiamiamo "a garden plan". È un programma che viene usato in architettura e che lascia molta libertà. Alcuni requisiti devono esserci per forza: la funzionalità deve essere rispettata, ma una volta soddisfatta questa, all'interno dell'idea devono trovare spazio la vita, la gioia, l'intimità. La libertà d'espressione. C'è sempre un project-leader: qualcuno che è garante dello spirito del progetto, del concetto o dell'idea. Il punto è che noi cerchiamo di non avere una vera organizzazione. Le cose si sistemano da sole. Per esempio, Detours non ha mai fatto attività di PR, e neanche di marketing o posizionamento. Il nostro studio non ha definito il proprio "profilo" o identità. Eppure, al tempo stesso, è come se lo avessimo fatto. È tutto venuto in modo naturale. Noi crediamo solo e soltanto nel progetto; è la piattaforma di tutto; il resto verrà da solo. Crediamo nella mentalità open-souce, ma lavoriamo sodo, molto sodo, quindi bisogna stare al passo.

Cos'è per voi lo spazio pubblico nella città contemporanea? Una sfida, una risorsa, un campo aperto per sperimentare, un'opportunità mancata…
Tutto questo. Ma, più di ogni altra cosa, lo spazio pubblico è il luogo dove chiunque può far sentire la sua voce. Un luogo aperto e accessibile a tutti, indipendentemente da sesso, razza, appartenenza etnica, età, classe socio-economica. E quello che ci fai, dipende solo da te.

Quali sono i vostri punti di riferimento?
Basta aprire la porta e guardarsi in giro.

Quali progetti avete in cantiere per il prossimo futuro?
World Out Games: http://www.copenhagen2009.org Il Kolding Centrum City Center: che sarà laboratorio, ufficio e atelier, a seconda dei bisogni di chi utilizza lo spazio Oslo Open: http://www.osloopen.no La casa del cinema della cultura BolsjeFabrikken, a Copenhagen, Lo Skanderborg Festival: http://www.smukfest.dk La scuola di musica Nikolai: palchi, spazi pubblici, bar, cucina, a Kolding, in Danimarca.
Oslo
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The Onionget Lost
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The Opera
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Una casa si chiude alla strada per aprirsi al paesaggio

Il progetto unifamiliare firmato da Elena Gianesini dialoga con il paesaggio vicentino, combinando tranquillità e stile contemporaneo, grazie a geometrie essenziali e alla copertura metallica Mazzonetto.

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