Made in Turchia
Istanbul
If Turkey fucks up, Europe fucks up. Non c’è bisogno di tradurre in italiano, mentre l’irlandese più potente di Istanbul porta a termine la sua tirata sui rapporti tra Oriente e Occidente, con dentro suoni come ‘Iran’, ‘Cina’, ‘Israele’ e “Unione Europea” – ottimi per scaldare il piatto delle conversazioni di questo genere, che sembrerebbero da Graham Greene anche senza specificare che siamo in uno dei migliori ristoranti di Istanbul, e ogni venti minuti si avvicina qualcuno a portare i suoi omaggi: pubblicitari, giornalisti, stelle dell’architettura del Bosforo. Ci invita la dirigenza di una delle più interessanti multinazionali turche. Loro si chiamano Eczacibasi e, tra le altre cose, vendono medicine e tirano su complessi residenziali armati fino ai denti: e soprattutto producono sei milioni di wc all’anno. Quanti ne producono tutte le aziende francesi di sanitari nello stesso periodo di tempo. E poi ci sono i bidet, i lavabi, le piastrelle, i rubinetti: e i disegni di bidet, piastrelle, rubinetti. Siamo qui perché la Turchia è nella posizione giusta e la metà del primo decennio del XXI Secolo è il momento giusto per la posizione della Turchia. Noi siamo qui per la VitrA turca. Che si scrive VitrA: che qualcuno chiama anche ‘la Vitra turca’. Che produce sei milioni di cessi all’anno. Che vuole fare un passo in avanti nei mercati che contano facendo disegnare da Ross Lovegrove una (graziosa) serie di strumenti per le abluzioni. Che è l’opposto diametrale della sua omonima, l’altra Vitra, quella Svizzera, di cui tutti sanno tutto e che è un trionfo dell’intelligenza postmoderna applicata al capitalismo più laico e disincantato che si possa immaginare. Lo capirò domani, quando andremo in Anatolia a visitare le fabbriche capaci di sfornare tazze da bagno con lo stesso ritmo di una Detroit moltiplicata per se stessa: come se a Detroit per fare le auto estraessero lamiera grezza dalle viscere della terra. Paul McMillan, il consiliori della famiglia che possiede la multinazionale di cui VitrA fa parte, ha il ruolo che un anello brillante coprirebbe su una mano. Si fa notare, fa notare, è un appiglio ornamentale nelle strategie psichiche di un’azienda, di una nazione, di una classe padronale che non vede l’ora di dire la sua nel mondo ultramoderno e ricco di flussi globali. (Ma quando si parla di ornamenti, e specialmente a Istanbul, bisognerebbe ricordare il noto aforisma di Lichtenberg – nessun ornamento è inutile per chi vuole scalare le facciate). E di facciate da scalare, con tutti i grattacieli che spuntano senza senso nelle distese agglomerate di quartieri e nuovi quartieri, ce ne sono abbastanza da poter scegliere. D’altronde la città è una macro molecola che si espande in tutte le direzioni morali e materiali: nel 1975 erano in cinquecentomila, oggi quattordici milioni – e per questo la capitale sfarzosa di due imperi fondati sui lapislazzuli è diventata uno sfacelo di dettagli sbagliati, nelle sue propaggini selvagge e nel suo futuro – nel suo design, visto che in fondo il design concettualmente non è poi che una faccenda di propaggini e di futuro, di propaggini spinte a indovinare il futuro: il design è il passato della materia che scommette sul futuro dei suoi derivati. Ecco perché siamo invitati qui, ecco perché domani andremo in elicottero a visitare lo stato dell’arte di un’azienda di sanitari che mostra i muscoli.
Anatolia
Poi, in Anatolia, scendo dall’elicottero e imparo molte cose. Anzi. Principalmente due. La prima. Questa è una delle poche multinazionali al mondo che non pratica se non in minima parte lo sport preferito delle companies del nostro tempo: l’outsourcing. Qui si estrae argilla, si rende liquida l’argilla, si modella l’argilla liquida, si trasforma in disegno tridimensionale l’argilla modellata, si fa seccare il disegno tridimensionale, si raffina il tutto; e prima che il sole sia tramontato lunghe processioni immobili di tazze da bagno riempiono le file che tagliano lo spazio di capannoni sempre troppo caldi o troppo freddi. Poi si esce e nel capannone accanto si preparano strumenti che piegano l’acciaio e si riempiono scatole su scatole di tubi ritorti che al momento giusto condurranno l’acqua lungo le superfici curve dei sanitari. La seconda. Mentre giriamo per guardare e capire Ramak, il fotografo, decide di inquadrare per scherzo – non troppo per scherzo – la scarpiera in cui riposano decine di paia di mocassini di operai. Il capo reparto non dice nulla. Poi intuisce tutto. Poi mette una mano davanti all’obbiettivo. Sarebbe facile dire che qui non sanno ancora cos’è la libertà, etc etc etc. Ma non ci sono segreti da nascondere nelle scarpe. Non fraintendiamo. Nessun malizioso tentativo di censura. È solo che non si capacita che arrivi qualcuno da fuori e concentri il proprio sguardo lontano dall’orbita del prodotto. La Mirafiori dei cessi del mondo globalizzato è fatta di anime candide ed entusiaste: ma forse il vero gesto di design concettuale, di policy aziendale, non è appaltare a Ross Lovegrove la nuova linea chic di sanitari, ma sostenere senza timori la pubblicazione dei lati divertenti del lavoro in fabbrica. Perché se come mi spiega il depliant la VitrA è all’ottavo posto del ranking mondiale per percentuale di mercato, non c’è chance che salga se non con un balzo in avanti della strategia marketing: la Turchia vuole entrare in Europa ma ci sono dei piccoli problemi di affidabilità ideologica e diritti umani: perché a parità di costo e di gradevolezza estetica un occidentale dovrebbe scegliere un bagno piuttosto che un altro? I sanitari dovrebbero imitare il marketing dei jeans. Loro insistono sull’attrattività del concept del bagno turco e dello stile di vita fatto di massaggi e odalische di porcellana. Ma ciò che colpirebbe il cuore della clientela raffinata internazionale sarebbe l’aura retro della passione neo-turca per il calvinismo capitalista senza fronzoli di delocalizzazione. E se insieme a questo si lasciasse intuire che non c’è nulla da nascondere e da censurare, voilà. Ecco la scarpiera. Con tutto il rispetto per il talento di Ross Lovegrove comunicare un’aria di libertà negli antri di un’oscura fabbrica persa nell’Anatolia vale tutto il budget del prezioso progettista londinese. Quando Ramak mi fotografa, lo sguardo perso nei riflessi smaltati del water, si compie il cerchio di un’immagine piuttosto simbolica. Il capitalismo serio che domanda aiuto al capitalismo che ha costruito un mondo di seduzioni intorno a jeans scadenti.
Il design per VitrA
VitrA è un’azienda turca fondata nel 1966 sussidiaria di Eczacibasi Group, un gruppo che comprende 36 aziende disseminate in tutto il mondo e attive nel settore farmaceutico, in quello edile, in beni di consumo di vario genere, nell’information technology, nelle tecnologie legate alla saldatura, nella finanza, oltre che nella produzione di sanitari in ceramica. Nel 2005 l’azienda ha occupato 8.370 lavoratori e ha prodotto un fatturato di oltre 2,5 miliardi di dollari. VitrA ha conosciuto una continua espansione nel corso dei suoi quarant’anni di vita; oggi esporta oltre l’80% della sua produzione in 75 paesi e in 5 continenti. Il principale impianto produttivo è insediato a Bozüyük (nelle foto a pagina 45-47), forse il più grande stabilimento di sanitari in ceramica del mondo con i suoi 3 milioni e 700 mila pezzi prodotti all’anno, oltre ai 5 milioni di pezzi di rubinetteria. La prima parte dell’impianto destinato a costituire il mega-insediamento di Bozüyük ha iniziato la produzione nel 1977; le officine per la lavorazione delle rubinetterie sono state aperte nel 1979, mentre la fabbrica di piastrelle è stata avviata nel 1991. Nel 1991 ha preso avvio anche la produzione di vasche da bagno e poco dopo anche quella di arredi per il bagno. Oltre allo stabilimento di Bozüyük (insediato nella cittadina di Bilecik, a circa 300 km a Est di Istanbul), VitrA possiede impianti produttivi a Kartal, Gebze e Tuzla (nei pressi di Istanbul) oltre a un impianto in Irlanda e uno in Germania. La collaborazione di Ross Lovegrove con VitrA risale all’ottobre del 2004. All’inizio, la collaborazione si è incentrata sul tema dello “spazio liquido”, che costituisce l’evoluzione della ricerca per cui Lovegrove è più conosciuto e che lui chiama de “l’essenzialità organica”; una predisposizione grazie alla quale Lovegrove sfrutta tecnologie e materiali sofisticati per creare forme organiche dalla natura scultorea. Le idee emerse nel corso della ricerca hanno portato alla produzione di Istanbul Collection, una serie di 175 prodotti per il bagno che comprende sanitari in ceramica, piastrelle, piatti per doccia, vasche da bagno in acrilico, rubinetti, arredo per il bagno che Lovegrove considera nella sua interezza quale “total bathroom”. “La citta di Istanbul è stata l’ispirazione per questo progetto” dice Lovegrove. “Insediata sulle rive tra due continenti, Istanbul è un museo vivente di culture, architettura e design”.














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