Quando Aldo Loris Rossi ha raccontato Renzo Piano per Domus

Nel 1983, due architetti italiani simboli di due stagioni, l’utopia radicale e l’High Tech, si incontrano su Domus, nelle parole che uno dedica all’altro per esplorare la poetica e la tecnica di un progetto per Milano.

“Dall’utopia della forma a griglia ‘indeterminata’, Renzo Piano riafferma l’etica ‘del fare le cose con le mani’. Nello scenario degli anni ’80, Aldo Loris Rossi ne rilegge la sfida tecnologica, chiarendone limiti e prospettive”. 
Alcuni incroci suonano oggi quasi impossibili, ma è di fatto una questione di mitologie che negli anni si costruiscono attorno ai personaggi lasciandone trasparire solo la superficie. Aldo Loris Rossi e Renzo Piano oggi sembrano provenire da due pianeti differenti. Rossi, che nel maggio 2023 sarebbe diventato novantenne, oggi è salutato come probabilmente il più noto esponente del brutalismo in Italia, ormai affrancato dal peso di un’omonimia ingombrante, ma legato a doppio nodo all’immagine della sua Casa del Portuale a Napoli (Domus le dedica una cover story nel marzo 2022, sul numero 1066). Piano, nel 1983 quando accade questa vicenda, è cantore radicale di una High Tech e di un’etica del progettare che costruiranno il suo mito nei decenni successivi.  
Succede che su
Domus sia proprio Aldo Loris Rossi a usare un progetto di Piano, l’ipotesi di una nuova estensione per le fiera di Milano, tanto per esplorare in profondo l’atteggiamento “nuovo” del progettista genovese, quanto per tracciare un profilo dell’architettura in un’epoca, attraverso categorie critiche come quelle attraverso le quali Reyner Banham, quell’epoca, l’aveva creata. Il saggio, che in inglese non a caso è titolato The well-tempered environment – esce nell’aprile del 1983, sul numero 638.

Domus 638, aprile 1983

La macchina climatizzata

Una serie non casuale di eventi testimonia che nella seconda metà degli anni ‘50, si realizza una mutazione genetica nelle ricerche sul linguaggio. Si assiste al superamento dell’intero orizzonte delle acquisizioni estetiche; cioè: dell’International Style, ridotto ormai alla unidimensionalità dei processi industriali; delle avanguardie informali, autoconfinatesi nei modi operativi a-industriali; delle correnti neorealistiche che si attardano nei miti paleo-industriali. Revocata in dubbio la stessa ideologia del Movimento Moderno quali prospettive sono ipotizzabili per la generazione nata negli anni ‘30 alla quale appartiene Piano – che in questi anni si affaccia al dibattito? Quali conseguenze implica la constatata rottura del continuum forma-funzione-struttura, uno dei fondamenti del Movimento Moderno?

In realtà dalla discontinuità verificata nella suddetta catena di relazioni si traggono conclusioni opposte. Infatti, se si concentra l’interesse sulla forma considerata indipendente dalla funzione e dalla struttura si perviene alla riscoperta: della facciata come maschera indifferente alla realtà interna dell’edificio; della decorazione come valore autonomo; degli elementi stilistici istituzionalizzati quali la colonna, la finestra, il timpano, l’edicola, il criptoportico, ecc... Si riscoprono, cioè, le tendenze anti – (post) – moderniste come formalismo integrale: una reazione implosiva giocata sui moduli della ri-artisticizzazione. Viceversa, se si polarizza l’interesse non sull’epidermide ma sullo scheletro strutturale rendendolo indipendente dalle funzioni e dalle forme si aprono orizzonti inesplorati. Si distrugge, è vero, il Principio della Forma, ma si sostituisce ad esso una struttura come campo, aperto alla polifunzionalità ed al pluralismo linguistico (dunque alla partecipazione dell’utente). Si invera, cioè, la nozione di neoavanguardia come anti-formalismo radicale: un ampliamento esplosivo della ricerca verso i fenomeni della dis-artisticizzazione.

Domus 638, aprile 1983

Renzo Piano appartiene a questa seconda area operativa. Egli respinge nettamente ogni restaurazione. Gli è sostanzialmente aliena sia la prospettiva dei sepolcri imbiancati della “Tendenza” che il naufragio felice nella dreamland postmodernista. Nel Beaubourg egli sa che “lo scimmiottare l’antico e tentare un approccio per similitudine” riduce l’architettura a vuoto esercizio di retorica. Infatti incalza: “confermo che sono molto polemico verso il recupero dell’antico attraverso i suoi stereotipi, gli archi e le colonne; trovo anzi che questo è un modo per niente genuino, abba-stanza falso, di recuperarlo”. Antiformalista intransigente è diffidente verso le pure alchimie linguistiche ed estraneo ad ogni sperimentalismo manieristico. La sua incessante preoccupazione è il recupero del grado zero dell’architettura, il momento originario in cui, per aderire ad uno scopo, le forze della materia tendono a strutturarsi in energia formale e, dunque, in geometria. Il Kunstwollen s’identifica con l’intenzionalità della materia in “formazione”. Dalla familiarità col costruire e dalla lezione di maestri quali Albini, Kahn, Makowski, ricava un’etica “del fare cose con le mani” come Techné, al tempo stesso causa ed effetto del processo di formatività adottato. Metodo fondato su un doppio movimento che conduce dalla ideazione alla realizzazione e viceversa, dal momento teorico-matematico a quello fisico sperimentale e viceversa, dal particolare al generale e viceversa, ecc.; in una continua circolarità nella quale “essenzialità significa usare materiali al meglio della loro condizione”.

Domus 638, aprile 1983

Ma le conseguenze più ricche di implicazioni Renzo Piano le ricava dalla rottura del Principio della Forma, proclamata dalle neoavanguardie. Se la Forma quale sintesi trascendentale di valori è un’utopia e “la professione dell’architetto, a causa di come la si fa, ... è tramontata definitivamente”, occorre rinunciare a dar forma agli spazi e restituire agli utenti il diritto alla creatività. Il ruolo dell’architetto quale custode di valori formali deve trasformarsi in quello di tecnologo di strutture spaziali, attrezzate, flessibili, non finite, in sostanza prive di forma: luoghi-supporti traducibili in spazio vissuto dagli abitanti. L’utopia della Forma, in conclusione, si spezza, da un lato, nella costruzione di griglie strutturali “indeterminate” e, dall’altro, nell’ideologia della partecipazione. Questo spiega l’apparente paradosso di Piano che mentre lavora “pezzo per pezzo” ai più rigorosi moduli spaziali, contemporaneamente si batte per il coinvolgimento degli utenti: dal Centro Pompidou alle Abitazioni a pianta libera, dal Museo di Houston al Laboratorio per la manutenzione a Japigia, dal Prototipo Fiat VSS al Progetto per l’Isola di Burano, a quello della Fiera di Milano ecc...

In quest’ultimo i principi teorici sono tesi al limite. La struttura attrezzata ha la scala del Palazzo di Cristallo di Paxton. È una piastra di m 600 X 300 che corre a m 13,00 di altezza, formata da 12.000 moduli spaziali in ferrocemento a forma piramidale di m 4x4x3 di altezza, poggiati su pilastri ogni 24 m. Nel senso longitudinale è attraversata da una grande stradaparco, munita di servizi, che orienta decisamente lo spazio e definisce otto aree espositive. Il microclima interno alla gigantesca serra è controllato da una sofisticata rete impiantistica che fa capo ad un congegno computerizzato, un vero e proprio sistema nervoso centrale, sensibile ad ogni mutamento di luce, rumore, calore, vento, acqua, ecc. Lo studio sistematico delle condizioni fisiche, questa volta atmosferiche, considerato prioritario, consente di sfuggire alle mistificazioni formalistiche. L’habitat artificiale, quale primordiale protezione primaria, vive in simbiosi con la natura e gli uomini. In effetti l’intera struttura non è visibile mai come insieme, oggetto finito. Dilatata oltre la soglia percettiva appare per frammenti. Rispetto alla fruizione subliminale tende a dissolversi completamente. L’architettura, dunque si eclissa in quanto tale per divenire macchina sensitiva, illimitata, microstruttura climatizzante estensibile alla sfera prossemica di un'intera collettività. La grande dimensione consente finalmente la metamorfosi del modulo strutturale in una protesi della natura. L’arco di legittimità di queste ricerche ammette come limite, da un lato, l’idea di nodo spaziale infinito di Wachsmann e, dall’altro, la cupola geodesica del diametro di due miglia per il controllo climatico di Manhattan di Fuller. “Il rifiuto dell’architettura come formalizzazione degli spazi” compie coerentemente e integralmente il suo ciclo.

Immagine di apertura: da Domus 638, aprile 1983

Ultimi articoli d'archivio

Altri articoli di Domus

Leggi tutto
China Germany India Mexico, Central America and Caribbean Sri Lanka Korea icon-camera close icon-comments icon-down-sm icon-download icon-facebook icon-heart icon-heart icon-next-sm icon-next icon-pinterest icon-play icon-plus icon-prev-sm icon-prev Search icon-twitter icon-views icon-instagram