Visitare la Casa del Portuale di Rossi oggi è un viaggio nell’abbandono

A Napoli, la Casa del Portuale e l’Unità urbana di Aldo Loris Rossi,  il “costruttore di utopie”, ancora irradiano speranza di bellezza nonostante l‘incuria.

Questo articolo è stato pubblicato in origine su Domus 1066, marzo 2022.

La città di Napoli è un atlante di architetture di ogni epoca che si sovrappongono alle precedenti senza cancellare il palinsesto dei segni leggibili. Ne deriva un linguaggio stratificato che ne costituisce l’unicità. Le opere del Novecento si confrontano necessariamente con la storia, cercando nessi e stacchi. 

Nel secondo Dopoguerra, sono stati realizzati interventi pregevoli di edilizia residenziale economica con i quali la città partenopea fa il suo ingresso nel dibattito italiano su come rinnovare l’architettura. Luigi Cosenza, che per anni era stata una voce isolata, si ritrova a guidare un gruppo di giovani progettisti alla ricerca di una cifra identitaria storicista e meridionale e, contemporaneamente, di appartenenza ai temi europei.

Aldo Loris Rossi. Archivi Ateneo “Federico II”, fondo A. Loris Rossi
Aldo Loris Rossi. Archivi Ateneo “Federico II”, fondo A. Loris Rossi

Giri nella città e sfogli il capitolo che inizia nel 1956 e prosegue fino agli anni Sessanta: il rione D’Azeglio a Barra e il rione Cesare Battisti a Poggioreale per l’Istituto Autonomo Case Popolari (IACP) sono tra i progetti più significativi. Gli interventi europei di questa tipologia a cui i napoletani si riagganciano si inserivano nel quadro di una pianificazione generale mentre a Napoli, segnata da un’assenza tutta meridionale di programmazione, le aree venivano reperite più o meno dove fossero disponibili e tutto il carico della qualità ricadeva sulle spalle dei progettisti. 

La città è scuola di formazione per i nuovi protagonisti degli anni successivi fino alla fine del secolo, già consapevoli della necessità di ricercare un linguaggio personale e contemporaneamente aderente alla tradizione europea, vale a dire ai paradigmi dei maestri. È la generazione di Giulio De Luca, di Michele Capobianco e di Massimo Pica Ciamarra, che guardano a Le Corbusier, Alvar Aalto e Gunnar Asplund. Tra questi, Aldo Loris Rossi è un progettista sperimentale e impetuoso: fra le architetture napoletane, la Casa del Portuale (1969-1978) e l’Unità urbana a servizi integrati (1979-1989) colmano emergenze dissonanti e occupano un capitolo a parte. Oggi, visitare la Casa del Portuale è un viaggio nell’abbandono. 

  

Imboccando via Ponte della Maddalena compare la sagoma dell’edificio di Rossi e, come un controcanto, l’accampamento dei senzatetto sotto le pensiline del mercato ittico (1929-1935) di Luigi Cosenza, con materassi, tende canadesi sbrindellate, cumuli di residui bruciati e anneriti, avanzi di cibo e coperte: una desolazione che urla alle nostre coscienze. 

Negli anni Sessanta, in un clima di contestazioni studentesche che attraversavano la facoltà di Architettura, da studente Aldo Loris Rossi disegna con Donatella Mazzoleni una Struttura urbana a sviluppo verticale lungo la via Marina a Napoli, pubblicata su L’Architecture d’Aujourd’hui. Si tratta di un’anticipazione della Casa del Portuale e della megastruttura, disegnata con Mazzoleni, per la mostra “Villes nouvelles” a Cannes nel 1970, premiata con il Nombre d’or al “Grand Prix International d’Urbanisme et d’Architecture”. Progettata per ospitare uffici, aule assembleari, mensa e officine, la Casa del Portuale porta sulla pelle i segni dell’incuria. 

Aldo Loris Rossi, Casa del Portuale, Napoli, 1969-1978. Foto © Charlotte Kruk
Aldo Loris Rossi, Casa del Portuale, Napoli, 1969-1978. Foto © Charlotte Kruk

Le vetrate sono opache di polvere, il cemento macchiato e ammalorato, gli oblò sono scardinati, ma la forza di rompere gli schemi c’è ancora, a distanza di 40 anni. Come resiste la testimonianza di una maestria tecnica nel disegnare il cemento. L’edificio è multiforme, ma il concetto è semplice: una serie di cilindri più un prisma, cavi e strutturali, visibili all’esterno, dove alloggiano impianti e ascensori. Questi elementi portano pezzi autonomi ad agganciarsi a sbalzo per poi espandersi o ridursi ai vari livelli a seconda delle funzioni e delle necessità statiche: vassoi circolari e mezzi vassoi, prismi vetrati e pezzi convessi, frangisole e scale estradossate, nuclei viventi nella trama di un profluvio espressionista che si contrappone all’intorno, confrontandosi a distanza con le gru, i gasometri, la volta del mercato ittico e con il campanile della Chiesa del Carmine in una sorta di grafo visivo. 

All’interno, le pareti di cemento nudo e le vetrate affacciate sulla frenesia del porto sono sufficienti per capire che la dinamica esterna è presente anche negli spazi interni. Il corpo di fabbrica basso e allungato che copre il parcheggio si aggancia al suolo e bilancia la volumetria della torre.

Aldo Loris Rossi, Casa del Portuale, Napoli, 1969-1978. Foto © Charlotte Kruk
Aldo Loris Rossi, Casa del Portuale, Napoli, 1969-1978. Foto © Charlotte Kruk

Nel 1981, sulle pagine di Domus 617, Gillo Dorfles definisce l’architettura di Aldo Loris Rossi ‘neobarocca’, ma scrive: “Il superamento avviene attraverso un recupero di molte delle più solide e tuttora accettabili motivazioni funzionaliste, che, tuttavia, vengono utilizzate con una libertà compositiva e una novità figurativa eccezionalmente aperte”. 

In età augustea, l’acqua che partiva dall’altopiano del Serino, ricco di castagneti e fonti limpide, veniva incanalata negli specchi di cocciopesto, superando le valli su ponti e canali di laterizio e di tufo, giungendo a Napoli e poi a Puteoli, fino alla cisterna della piscina Mirabilis. In via Nicolini, un frammento di quest’acquedotto si trova nelle arcate di mattoni rossi che superano il Cavone di Miano e danno il nome al quartiere: Ponti Rossi si espande dal parco di Capodimonte fino quasi a piazza Carlo III. I fornici della struttura sono oggi attraversati dalle macchine, dai furgoni e dai motorini, i segnali stradali sono ancorati sui piedritti degli archi, mentre la cima è infestata da ciuffi di malerba e una moderna edicoletta funeraria di alluminio si aggancia sul fronte sud. 

Le arcate si perdono a ridosso delle torri circolari dell’Unità urbana a servizi integrati, detta Piazza Grande. Sei torri alte 36 m e un volume ad anello più basso racchiudono uno spazio circolare di 100 m di diametro a cui manca un pezzo, come una luna quasi piena, una specie di fortezza programmaticamente autonoma rispetto al contesto. È questo il punto più audace del progetto che si colloca in anni in cui il dibattito non prescindeva da posizioni contestualiste e afferma con forza una sorta di spudorata indifferenza rispetto ai reperti romani e al tessuto circostante. Probabilmente l’intervento ha più nessi con i piloni e le strutture metalliche del viadotto della tangenziale che passa sopra il quartiere a poche centinaia di metri e, proprio da quest’ultima, si ha una visione più complessiva dell’insediamento. Al centro della corte, un vuoto illumina e arieggia il piano interrato mentre intorno una raggiera di scale e camminamenti si protendono verso lo spazio condominiale attrezzato con campi sportivi e zone a verde. 

  

Il progetto prevedeva 200 alloggi, servizi commerciali, scuole e attrezzature per il tempo libero, ma non è stato realizzato nella sua interezza, come spesso accade, per le pressioni degli investitori tese a massimizzare volumi e superfici. Il portale d’ingresso, con il pilone centrale e piccoli organismi vetrati aggrappati a sbalzo, è un pezzo di bravura, ma anche di mestiere. Questo ricorso al mestiere produce un formalismo rintracciabile nel disegno generale ed è forse inevitabile quando bisogna bilanciare le richieste di un’operazione di speculazione. 

Donatella Mazzoleni, che con Aldo Loris Rossi ha condiviso un tratto di vita privata e professionale, mi mostra gli album di schizzi in una grande stanza vuota affacciata sul golfo e sul Vesuvio con le luci della sera che punteggiano il panorama. Si sfogliano dall’ultima pagina alla prima perché, mi spiega, i fogli disegnati venivano poggiati l’uno sull’altro e, alla fine, rilegati con le viti. C’è una grande bravura nei disegni e l’idea dei progetti emerge da una serie infinita di variazioni, appunti, confronti, annotazioni e revisioni, con “secondo me” scritti a margine. Sono a matita e inchiostro di penna, con tratti rafforzati da pennarelli colorati e cieli rossi. 

Unità urbana, Piazza Grande, Aldo Loris Rossi, Napoli, 1979-1989. Foto © Charlotte Kruk
Unità urbana, Piazza Grande, Aldo Loris Rossi, Napoli, 1979-1989. Foto © Charlotte Kruk

Sono espliciti i riferimenti alle suggestioni futuriste del comasco Antonio Sant’Elia (1888-1916). La Casa del Portuale nasce come edificio orizzontale, frammentato, in alcune versioni come una configurazione destrutturata che ricorda le rocce, su cui si eleva la torre, pensata come un pezzo del tutto. Sono sempre stati presenti, sullo sfondo, il silo del porto che l’affiancano. Già dall’inizio, invece, gli schizzi di Piazza Grande sono vicini alla soluzione definitiva e mostrano una geometria circolare con i raggi che si allungano verso l’intorno. 

Da anni, giro la città e la racconto. Ho imparato ad ammirare profondamente Aldo Loris Rossi che, con i suoi edifici dalle forme libere, stratificate e contraddittorie, era un costruttore di utopie, quindi di futuro, il contrario esatto dello sfacelo retrogrado delle ambientazioni di Gomorra che, invece, hanno scelto sia la Casa del Portuale sia Piazza Grande per mettere in scena una violenza primitiva. Non ci vuole niente, con una luce particolare, a trasformare un buon edificio in un luogo orrendo. Strano destino per architetture che invece irradiano la stessa speranza di bellezza che ognuno di noi pensa sempre di rintracciare nella città e nei suoi anfratti.

Immagine di apertura: Aldo Loris Rossi, Casa del Portuale, Napoli, Italy, 1969-1978. Foto © Roberto Conte

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