Bruno Latour

(1947-2022)


Tutti gli editoriali scritti in esclusiva per Domus dal grande filosofo, sociologo e antropologo francese.


Bruno Latour

“Aria condizionata: il nostro nuovo destino politico”

Come iniziamo a renderci conto della fragilità e dell’esistenza delle sfere in cui viviamo, di atmosfere come l’ambiente, così dobbiamo cominciare a fare anche con la sfera pubblica del nostro vivere collettivo.

L’editoriale è stato pubblicato sul numero 868 di Domus nel marzo 2004.

“La politica, d’ora in poi, diventerà una parte delle tecnologie di controllo climatico”. Di che si tratta? Di una citazione tratta da uno studio di Rem Koolhaas sui centri commerciali? Di uno slogan della mafia del petrolio – quella che oggi spinge il presidente Bush a criticare il protocollo di Kyoto? Della dichiarazione con cui l’artista Olafur Eliasson accompagna la sua nuova installazione – un sole che si libra sotto la volta della gigantesca Turbine Hall della Tate Modern? Nulla di tutto questo. Per quanto sicuramente ispirata dall’attualità e dalla cronaca, questa dichiarazione ha origine nella filosofia: in una filosofia sicuramente particolare, ma pur sempre nella filosofia. In particolare, in tre volumi illustrati nei quali il filosofo tedesco Peter Sloterdijk si è chiesto cosa significasse appartenere ad un ambiente, ad un’abitazione, ad una domus.

Ad interessare architetti, designer, artisti, attivisti e scienziati della politica deve essere soprattutto il fatto che Sloterdijk ci chieda di modificare radicalmente il nostro punto di vista sul significato di ‘abitare’ un luogo. Prima di lui, il meglio che si potesse fare per “abitare un luogo” era di affidarsi all’alternanza tra punti di vista soggettivi e oggettivi. In architettura, ad esempio, si guardava dapprima al progetto di massima, ai disegni tecnici, alle viste in sezione – tutto materiale pronto ad offrirsi come un ampio panorama allo sguardo panoptico del Pianificatore; e solo dopo, restringendo il campo, era lecito passare alle interpretazioni ‘vissute’ e parziali, illustrate da qualche figura che passeggia per la città, come il celebre passante di Michel de Certeau. Questa “divisione del lavoro” tra sguardo oggettivo e sguardo soggettivo faceva sì che non ci si potesse concentrare simultaneamente sul grande e sul piccolo, sul reale e sul simbolico, sull’umano e sul non umano, sulla sfera scientifica e su quella del ‘vissuto’. Non a caso, le ottiche tradizionali della nostra fotocamera mentale ci costringevano a scegliere tra primo piano e sfondo, senza offrirci mai la possibilità di mettere entrambi simultaneamente a fuoco.

Domus 868, marzo 2004
Domus 868, marzo 2004

Prendendo spunto da Heidegger – o per meglio dire: da un Heidegger riconciliato con la tecnologia moderna! – Sloterdijk ci chiede di considerare cosa significhi oggi essere ‘gettati’ nel mondo. La domanda, come accade per tutte le grandi questioni filosofiche, è tanto semplice quanto radicale: se infatti siamo sempre ‘nel’ mondo, come possiamo scoprire cos’è che ci permette di viverci? Come esplorare quei sistemi di sopravvivenza che rendono possibile la nostra esistenza? Come considerare le instabili pareti tra le quali ci è concesso di respirare? Da questi interrogativi scaturisce uno scenario completamente diverso da quello delle consuete logiche di alternanza tra sfera oggettiva e sfera soggettiva. Ci scopriamo infatti avvolti in numerosi involucri successivi, dei quali diveniamo consapevoli gradualmente. E per quanto non sia mai davvero possibile fuggire da un determinato ambiente e nascondersi in una sorta di “vista da nessun luogo”, ciò non significa che si debba restare prigionieri del nostro limitato punto di vista soggettivo.

Ci rendiamo piuttosto lentamente conto che la nostra esistenza dipende da forze opache, indecifrabili, che non è più possibile ‘oggettivare’ nel vecchio senso del termine. Forze che diventano sempre più esplicite, e giocano più o meno lo stesso ruolo svolto dall’ambiente, dall’atmosfera, dal contesto nei quali gli esseri umani sono costantemente immersi. Da ciò, la fascinazione di Sloterdijk per discipline che sembrano appartenere alla biologia – immunologia, ostetricia, ecologia –, un interesse che va di pari passo con un’attenta osservazione di fenomeni che rientrano nel campo della tecnologia: stazioni spaziali, genomiche, sistemi d’irrigazione, e – da lì in poi – architetture, abitazioni, città, cupole e globi di ogni forma e sagoma.

È interessante notare come questo modo di intendere ed usare la biologia e la tecnologia non porti ad un riduzionismo naturalistico. Né il soggetto, né l’oggetto mantengono il loro posto. Piuttosto, la materia è fatta sparire, trasformata, in fragili involucri. “Non appena gli artisti, i designer e gli architetti cominciano ad occuparsi della luce come elemento primario” scrive Sloterdijk, “qualcosa si muove. Dal punto di vista filosofico, l’Aria prende il posto della Terra quale ‘elemento fondamentale’”. È proprio questo ciò che, rileggendo Buckminster Fuller, Sloterdijk definisce la nostra “condizione dell’aria”…

Copertina Domus 868

Non si tratta di aggiungere un punto di vista simbolico e soggettivo ad un mondo oggettivo e materiale, fatto di cose tangibili; si tratta piuttosto di esplorare il tipo di tecnologie dalle quali dipende il delicato tessuto delle nostre fragili e preziose bolle di controllo climatico. La vecchia prospettiva era completamente sbagliata: non è vero che quel che ci è lontano risulta oscuro, mentre ciò che ci è vicino è invece chiaro. Piuttosto, è vero il contrario: ciò che ci è vicino ci è completamente oscuro; e ciò che ci è lontano non è – lo scopriamo poco a poco – ciò che riusciamo ad abbracciare con lo sguardo, ma quel che ci tiene in vita. Nella sua introduzione al terzo volume di Spheres, Sloterdijk afferma che fu soltanto il 22 aprile 1915, quando nuvole di gas cominciarono a penetrare nelle trincee vicino ad Ypres, che l’umanità scoprì fino a che punto anche l’aria potesse diventare uno strumento della tecnologia, e quindi della politica. Prima di quel giorno, l’aria era per noi qualcosa di scontato, di trasparente. Poi, di colpo, non lo fu più. Lo stesso accade, quasi un secolo più tardi, a molti altri dei nostri sistemi di sopravvivenza. Da allora, abbiamo imparato come si soffoca lentamente per la progressiva scomparsa di altre entità, di cui non avevamo ben valutato l’importanza nel determinare la (nostra) condizione dell’aria.

Viaggiamo di bolla in bolla, in direzione del Globale, che non è altro che un’altra minuscola bolla. Ecco perché, nella fabbricazione artificiale delle 'domes' pubbliche, dovremmo investire almeno la stessa attenzione che impieghiamo per rendere vivibile uno spazio privato.

Ma cos’è che lega tutto questo alla politica? È un motivo che, retrospettivamente, vediamo con chiarezza per esempio nell’affresco – molto discusso – conservato nel Palazzo Comunale di Siena. Quel che spesso manca nelle analisi di questo simbolo della politica è la percezione di come Lorenzetti abbia reso la differenza tra Buon e Cattivo Governo una questione di atmosfera. Nella città Buona, la gente scherza, balla, si scambia merci di ogni tipo, respira tra edifici disposti con ordine e ben conservati; dal canto loro, gli agricoltori, i viaggiatori, i cacciatori abitano in un ecosistema ricco di animali e piante. Sulla parete opposta, la Discordia non è visibile solo attraverso i mostri orripilanti della Tirannia, ma anche dalla distruzione – molto più prosaica – del paesaggio e del tessuto urbano, dall’opprimente atmosfera che scaturisce dal sospetto e dall’assassinio e dal modo in cui i raggi della luce stessi non riescono a penetrare il dipinto.

Se leggiamo questa celeberrima illustrazione degli ideali politici del Rinascimento tenendo a mente il pensiero di Sloterdijk, comprenderemo che per lui la Sfera Pubblica è proprio questo: una sfera, ossia un altro luogo privato che deve essere generato, mantenuto, riscaldato, illuminato, arredato, conservato per mezzo di una attenta tecnologizzazione di molti ed intricati sistemi di sopravvivenza. Non è vero che si passa dalla piccola e soggettiva dimensione domestica all’ampio respiro di una piazza pubblica: in realtà viaggiamo di bolla in bolla, in direzione del Globale, che non è altro che un’altra minuscola bolla. Ecco perché, nella fabbricazione artificiale delle domes pubbliche, dovremmo investire almeno la stessa attenzione che impieghiamo per rendere vivibile uno spazio privato.

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