Un saluto a Philippe Daverio

Walter Mariotti, Direttore Editoriale di Domus, ricorda Philippe Daverio, storico d’arte scomparso questa settimana a Milano, all’età di 70 anni.

“Ma allora sei davvero un Mariotti perché non si può essere un Mariotti se non si sa andare bene a cavallo”. Passai così il debutto in società con Philippe Daverio, un pomeriggio di tanti anni fa, in una memorabile passeggiata a numero chiuso che Daverio riaprì. Accogliermi come uno di casa e facendomi diventare rosso dall’emozione. Da quel pomeriggio a cavallo, deliziato dai dettagli e dagli aneddoti di una personalità originalissima, ogni volta che lo chiamavo mi rispondeva, mi riceveva e mi parlava come Flaubert faceva con i suoi ospiti: facendoli sentire al suo livello anche se non era vero. Del resto per Daverio saper andare a cavallo era importante quanto abolire le grisaglie – nel suo guardaroba non c’erano – conoscere le lingue – ne parlava molte vive e altrettante morte – e sapersi comportare in società. Tutto perché per lui, come per Goethe, Loos e Lacan, l’etica veniva dopo l’estetica. E solo rettificando la seconda si poteva sperare di migliorare la prima e migliorando il vivere civile. Particolarmente in quello che rimaneva per lui il suo paese delle meraviglie, l’Italia.

Eccentrico senza la tentazione dell’apocalisse, riconosciuto da tutti ma non integrato con nessuno, Daverio ha avuto due costanti nella sua vita, due bussole o se vogliamo due stelle polari: la libertà personale e l’arte sociale, entrambe però intese in una maniera difficilmente reperibile nel catalogo dell’italianità. Pur avendo concluso tutti gli esami alla Bocconi non si era mai voluto laureare. Pur non essendo un antiquario né un gallerista aveva voluto aprire una galleria in anni, metà Settanta, in cui a parlare di quadri si rischiava la pelle. E pur non essendo leghista aveva accettato di fare l’assessore alla cultura di Milano con il sindaco Marco Formentini, pur non essendo di sinistra si candidò con Filippo Penati e non essendo radicale sostenne, già malato, Emma Bonino e il suo dolente europeismo.

Fisicamente rubensiano con l’incarnato tipicamente alsaziano, aveva tratti somatici e soprattutto gli occhi di un bambino mai cresciuto che al volante delle macchine decappottabili, che prediligeva, sembrava se ne infischiasse del mondo. Fra le sue passioni le case grandi con lunghi corridoi, dove passeggiare scortato da una biblioteca che pareva quella di Borges, in cui nelle sere particolarmente cupe immaginava che il declino dell’estetica cattolica fosse scritto con Leone XIII e che i grattacieli di Milano fossero uno scempio da cancellare. Soprattutto per evitare che gli Dei superni si vendicassero dei suoi abitanti, architetti in primis.

Questa libertà di pensiero e azione è determinante per capire il successo che Philippe Daverio ha avuto nella divulgazione artistica. Perché Daverio non era – e soprattutto non voleva – essere uno storico dell’arte tout court, come si intende facendo riferimento a Roberto Longhi e i suoi tristi epigoni. Piuttosto, agiva da antropologo mediale, un Marcel Mauss ma più gaudente e ironico e soprattutto rimasto in Europa. “Vedi a me non interessa sapere se quel quadro è di Piero della Francesca, anche se posso provare a immaginare una attribuzione. A me interessa capire come viveva l’aristocrazia che l’aveva commissionato, quali valori avesse, cosa mangiasse, di che colore fossero i bottoni dei suoi farsetti. E soprattutto se preferisse i cavalli murgesi selezionati di Federico II o quelli andalusi”.

Erudito e divulgatore al tempo stesso, viaggiatore instancabile e come Oblomov inquilino permanente del proprio sofà “il Daverio de Milan” era capace di comunicare con chiunque e ma al tempo stesso di compiere scelte controcorrente. Ultima e suprema dimostrazione di una parabola intellettuale unica resta il suo approdo in televisione, dove con Passepartout Daverio inventa un format – come si dice oggi con un orrido termine che non pronunciava mai – insuperato e ineguagliabile, anche perché centrato su se stesso e la propria irriproducibilità tecnica. Passepartout e i percorsi in cui Daverio faceva una guida turistica erano pura flanerie, godimento intellettuale e fisico al sommo grado. Anche perché, a differenza di quelli di Walter Benjamin, sapevano essere eruditi e accessibili al tempo stesso e con il vlto rivolto alla vita e non al presagio della morte.

Sospeso tra il dandy viaggiatore alla Phileas Fogg e un Lord Brummell disorientato dalla campagna inglese, Daverio resta testimone di una cifra borghese scomparsa, mai doveristica né moralistica, che nel nostro sciagurato tempo di decadenza non ha eredi. Lascia anche libri di successo di cui si perde il conto, che fra gli altri meriti hanno quello di far storcere il naso ai critici d’arte ortodossi, proprio come provenire dal mercato faceva alzare il sopracciglio a molti dopo la vittoria al concorso da associato. “Non c’è bisogno di essere difficili per parlare di cose difficili. La sfida è l’opposto”. Aveva ragione anche in questo.

Catturato sulle pagine come in tv dalla ragnatela di aneddoti, curiosità, parallelismi, varie ed eventuali che come un ragno Philippe dipanava con una maestria interdisciplinare che ricordava l’ultimo Federico Zeri, anche se per fortuna meno compreso di sé, Daverio non aveva mai considerato l’arte per l’arte ma una passione personale e una chiave privilegiata per mettere in contatto con gli altri, che erano disposti a seguire le sue peregrinazioni lungo lo Stivale fino a tardissima ora.

Amante del buon cibo con una predilezione per la cacciagione, e degli spirits al vertice dei quali collocava il Gin&Tonic, che riteneva apice sinfonico della postmodernità, Daverio lascia un vuoto difficilmente colmabile. Perché è stata l’ultima dimostrazione che solo la cultura e le buone maniere contano. E solo gli irregolari, gli eccentrici, i bastian contrari possono svolgere il ruolo dei civil servant. Se poi sanno sorridere del proprio farfallino, andare bene a cavallo e guidare cabriolet bianche è il massimo.

Immagine di apertura: Philippe Daverio alla presentazione di un evento musicale della rassegna MITO SettembreMusica. Milano, Palazzo Reale, sala delle Cariatidi. Credits WikiCommons.

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