Il New Deal salvò l’arte e c'è chi vorrebbe replicarlo oggi

Come funzionava per gli artisti e per le occupazioni che oggi chiameremmo creative il piano di Roosvelt, ideato per rilanciare gli Usa dopo la crisi del ’29, che ora Hans-Ulrich Obrist propone di replicare per fronteggiare lo stallo post-Coronavirus.

Da qualche settimana il curatore più noto dei nostri tempi, Hans-Ulrich Obrist, propone per il post-covid19 la messa in atto di un piano governativo di supporto agli artisti sul modello di ciò che accadde negli Stati Uniti nell’ambito del New Deal, immediatamente dopo la crisi del ’29. È allora interessante capire di cosa si tratta, provando a ricostruire brevemente quella vicenda.

Tra le migliaia di disoccupati della Grande Depressione c’erano anche centinaia di artisti, scrittori, musicisti, attori e danzatori, per questo all’interno di quell’enorme piano di riforme economiche e sociali che fu il New Deal trovò spazio anche un progetto a sostegno delle arti. Fu il pittore George Biddle a proporre all’amico Franklin Delano Roosevelt d’includere il lavoro degli artisti all’interno del Civil Works Administration (CWA, un programma per l’impiego) ma a convincere il presidente della necessità di quell’intervento furono Eleanor Roosevelt e Harry Hopkins, suo collaboratore e uomo a capo del CWA. Tra il dicembre del 1933 e il giugno 1934 con i fondi del Civil Works Administration venne quindi messo in atto il Public Work of Art Project (PWAP), diretto da Edward Bruce del Dipartimento del Tesoro, che già supervisionava l’acquisizione di opere d’arte da parte dello stato. Obiettivo del progetto era di dare lavoro agli artisti attraverso la realizzazione di opere destinate a decorare edifici pubblici e parchi. All’interno del PWAP trovarono occupazione circa 3700 persone che produssero più o meno 15mila lavori ma, secondo quanto si legge in Arte dal Novecento: “A New York quelli che ebbero la fortuna di rientrare tra i partecipanti passarono il tempo a ripulire e riparare le statue e i monumenti della città”. Ciononostante l’effetto sociale sembra, secondo quanto riportava L.Glenn Smith nel 1984, aver avuto dei risvolti positivi poiché “gli artisti che ricevettero lavoro nell’ambito del piano sperimentarono una potente catarsi. La società da cui si erano sentiti a lungo alienati e che aveva portato alcuni degli americani più talentuosi in Europa, stava finalmente dando loro un riconoscimento”.

Gorky lavora al murale “Modern Aviation” nell’aeroporto di Newark per il Federal Art Project. Archivio dell’American Art, Smithsonian Institution

Conclusa nel 1934 l’esperienza del CWA e quindi anche del PWAP, secondo quanto riporta  Francis V. O’Connor in un articolo uscito nel 1969 su “The American Art Journal”, si assistette alla nascita di due progetti simili che proseguirono in modo parallelo: da una parte il Dipartimento del Tesoro istituì una Sezione di pittura e scultura con l’obiettivo d’impiegare gli artisti nella decorazione degli edifici governativi; dall’altra nel 1935 prese avvio il Word Progress Administration (WPA, nato sulla scorta del CWA) all’interno del quale lo stesso Hopkins incluse progetti dedicati alle arti in particolare alla scrittura (Federal Writer’s Project), al teatro (Federal Theater Project), alla musica (Federal Music Project) e a pittura e scultura con il Federal Art Project che proseguì fino al 1943. 

Il Federal Art Project era diretto da Holger Cahill (che nel corso della sua carriera aveva anche ricoperto il ruolo di direttore delle esposizioni al Museum of Modern Art) e si divideva in due settori: la pittura murale e quella da cavalletto, gli artisti erano classificati e retribuiti come “dilettanti, intermedi, avanzati o professionisti”.

Fotografia dell’artista Ilya Bolotowsky e dell’assistente John Joslyn che lavorano a un murale per la Hall of Medical Sciences all’esposizione mondiale di New York del 1939. Archivio dell’American Art, Smithsonian Institution

Presero parte al progetto artisti come Jackson Pollock (si sa che suo un mosaico venne respinto) e Mark Rothko, per la pittura da cavalletto, mentre Willem de Kooning, Ila Bolotowsky e Arshile Gorky lavorarono per la divisione dedicata alle pitture murali, che venivano disegnate e ideate da uno o due artisti per un luogo specifico ed erano poi realizzate da un gruppo di pittori. Quando nel 1937 il governo pose la condizione che gli artisti partecipanti dovessero necessariamente essere di nazionalità americana Rothko, De Kooning e Gorky non poterono più essere inclusi.

Sono circa 200mila le opere realizzate durante tutta la durata del Federal Art Project e non tutte sono sopravvissute. Questa grande produzione oltre a dare supporto agli artisti e valorizzare il loro lavoro comportò anche l’opportunità per la popolazione americana di confrontarsi con opere d’arte che comparvero in molti luoghi pubblici frequentati quotidianamente dai cittadini, come per esempio gli uffici postali. Inoltre, stando sempre alle parole di Foster, Krauss, Bois e Buchloh “Il Federal Art Project ebbe un effetto travolgente, quello di far collaborare gli artisti secondo modalità completamente nuove […] Sollevati dall’obbligo di fare lavoretti per vivere, questi artisti a tempo pieno cominciarono a percepirsi come una comunità”.

Fotografia del murale “The Bauxite Mines” (1942) di Julius Woeltz, collocato nel Saline County Courthouse in Benton, Arkansas; originalmente installato nel U.S. Post Office a Benton, Arkansas. Archivio Carol M. Highsmith Archive, Library of Congress.

Non dobbiamo dimenticare infine che nell’ambito del New Deal, nel 1936, venne istituita anche la Farm Security Administration (FSA), con l’obiettivo di combattere la povertà che era andata via via inasprendosi nelle aree rurali. Fu proprio la FSA a ingaggiare fotografi come Walker Evans e Dorothea Lange per documentare la situazione nei territori di campagna.

Il momento che stiamo vivendo ora ci porta a riflettere sulle conseguenze del covid19 e dell’isolamento, che si prevedono devastanti in ogni settore sul piano economico. La proposta di guardare all’esperienza americana degli anni Trenta, lanciata da Obrist, è interessante, ma è evidente che non basterebbe, a ormai novant’anni di distanza, replicare quel modello. Non solo le politiche di sostegno alle arti sono cambiate, come è cambiato il riconoscimento sociale del ruolo dell’artista, ma a non essere più gli stessi oggi sono i linguaggi e le pratiche adottate dagli artisti: anche solo le arti visive non si limitano più a rispondere alle rigide classificazioni, le possibilità si sono estese a una grande varietà di strumenti espressivi che, tanto per citarne alcune, spaziano dal digitale alle pratiche relazionali.

Immagine di apertura: Coit Tower, San Francisco. Foto Another Believer.

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