Massimo Cantini Parrini: vincitore del David per i costumi ispirati a David Bowie

Una chiacchierata con il costume designer, al suo terzo David di Donatello, vinto quest’anno con il film Riccardo va all’Inferno di Roberta Torre.

Ho avuto il piacere di lavorare con te e vedendo i tuoi lavori ti definirei un autore del costume design, perché i tuoi costumi hanno un’impronta evidente. Ma ho letto che ami definirti un archeologo del settore.
Non vuole essere una definizione pomposa, semplicemente intendo dire che dietro a un costume, che se vogliamo è qualcosa di leggero, di giocoso, c’è una grande ricerca, che per quanto mi riguarda è spesso rivolta al passato e da qui la metafora dell’archeologia.


È la ricerca che ha dato inizio al tuo percorso nel costume design?

Sì, ho iniziato i miei studi all’istituto d’arte, ho proseguito all’università con Lettere e filosofia indirizzo Costume, ma è stato fondamentale imparare anche a tagliare e cucire al Polimoda di Firenze. In seguito, ho vinto il concorso per il Centro Sperimentale di Cinematografia dove insegnava il maestro Piero Tosi che ha lavorato con Visconti, Fellini, De Sica e Pasolini. È lui che mi ha portato alla storica sartoria Tirelli e qui ho iniziato a collaborare con Gabriella Pescucci (premio Oscar ai costumi per L’Età dell’Innocenza di Martin Scorsese). Per 10 anni ho lavorato con lei a grandi film americani come La Fabbrica di Cioccolato di Tim Burton e Fratelli Grimm di Terry Gilliam.

Fig.1 Scena dal film Riccardo va all’inferno di Roberta Torre
Fig.2 Scena dal film Riccardo va all’inferno di Roberta Torre
Fig.3 Scena dal film Riccardo va all’inferno di Roberta Torre
Fig.4 Scena dal film Riccardo va all’inferno di Roberta Torre
Fig.5 Scena dal film Riccardo va all’inferno di Roberta Torre
Fig.6 Scena dal film Riccardo va all’inferno di Roberta Torre
Fig.7 Scena dal film Riccardo va all’inferno di Roberta Torre
Fig.8 Scena dal film Riccardo va all’inferno di Roberta Torre

Di cosa è fatta questa ricerca?
È un processo complesso. Io sono collezionista di abiti d’epoca, possiedo circa 4.000 pezzi dal Settecento agli anni Sessanta e Settanta del Novecento, e spesso parto da qui. Poi per epoche in cui la fotografia non esisteva, mi rivolgo a scritti, quadri o sculture, che però restituiscono sempre degli ideali di ciò che rappresentano, modelli che poi vanno resi reali. Con l’avvento della fotografia, invece, la realtà comincia a essere documentata per quello che è ed è questo l’aspetto che più interessa: la realtà. O meglio la verità, che comunque non è assoluta, perché i corpi sono cambiati, le stoffe anche, e per un film c’è anche una sceneggiatura da assecondare. Ma la verità è importante perché è lì che il pubblico si ritrova. Non penso che nel mio lavoro l’importante sia il bello o il brutto, ma che le cose siano giuste o sbagliate.

Che ruolo hanno l’architettura, il design, l’arte nel tuo lavoro?
Seguo moltissimo l’arte contemporanea e l’architettura, mi affascinano perché sono espressione dell’uomo. Ma per il mio lavoro traggo ispirazione soprattutto dal passato e quindi è all’architettura del passato che faccio riferimento, ad esempio sono affascinato molto da quella europea degli anni Venti e Trenta. Non ho mai fatto film di science fiction, in questo caso l’influenza della contemporaneità sarebbe più decisiva.

Nel frattempo, hai lavorato a molti film diversi tra loro. Sei passato dal mondo fantastico de Il Racconto dei Racconti di Garrone al mondo contemporaneo reale di Ella&John di Virzì a quello visto attraverso la lente di una fiaba dark in Indivisibili. In base a cosa scegli i film?
Scelgo film dove il mio lavoro può essere valorizzato e per i film ad ambientazione contemporanea li scelgo se c’è spazio per esprimermi. Come in Ella & John (con Donald Sutherland Helen Mirren candidata ai Golden Globe per questo ruolo) che mi ha dato la possibilità di approcciare il mondo americano contemporaneo attraverso due signori anziani di provincia, intellettuali e non alla moda. Quello che faccio in questi casi è “fare l’armadio” dei personaggi. Con Paolo l’intesa è stata immediata, è bello quando i pensieri si uniscono senza volerlo. Eravamo d’accordo su un mondo di colori soft, pastello, desaturizzati. Ho sempre voluto abbinare nei colori i due personaggi perché sono un uomo e una donna anziani che si amano, si cercano, si seguono sempre. Attraverso il costume volevo rendere questa loro complicità.

Fig.10 Scena dal film Riccardo va all’inferno di Roberta Torre
Fig.11 Scena dal film Riccardo va all’inferno di Roberta Torre
Fig.12 Scena dal film Riccardo va all’inferno di Roberta Torre
Fig.13 Scena dal film Riccardo va all’inferno di Roberta Torre
Fig.14 Scena dal film Riccardo va all’inferno di Roberta Torre
Fig.15 Scena dal film Riccardo va all’inferno di Roberta Torre

Almodovar ha detto che per dare definizione visiva a un suo film parte da un colore. Tu da cosa parti?
Da un museo: mi ci butto e da lì traggo ispirazione. Per Indivisibili sono andato a Pompei perché la storia delle due gemelle siamesi è ambientata in Campania e il mondo del film ha molto della decadenza che si respira a Pompei. Lì ho visto un affresco di due ninfe che escono dall’acqua, con un abito bagnato che ricorda l’effetto del mercurio. Da lì ho pensato al costume fatto di lycra argentata, un tessuto povero costato niente ma perfetto, perché l’intuizione è la resa sullo schermo, non dal vero, e il materiale è scelto per quello.

Per Riccardo va all’Inferno, invece, l’ispirazione è venuta da David Bowie.
Dalla mostra “David Bowie Is” al MAMbo di Bologna. David Bowie era “LA” contemporaneità, era la moda, ma ferma nel tempo. Chiunque ci si può ritrovare. Per il film di Roberta Torre, che è un musical dark, la direzione è stata subito quella del rock anni Settanta. Il linguaggio è molto luccicante, da videoclip. I costumi hanno linee forti e pulite esaltate dai gioielli. Per me l’eleganza è togliere, non mettere.

Qui è evidente il lavoro di coordinamento con il production design. È una costante del tuo mestiere?
Collaboro sempre con la scenografia: i colori che scegliamo per ambienti e costumi devono essere sulla stessa lunghezza d’onda. Chi guida il processo è il regista. Roberta è un esempio di regista con spiccato senso estetico e grande cultura visiva, come anche Matteo Garrone e Scola. Il nostro mantra nel film era “pazzia”.

Cosa rende un costume iconico? Il tuo più celebre è sicuramente l’abito rosso di Salma Hayek in Il Racconto dei Racconti.
In quel caso l’impatto è dovuto alla stoffa, che è una stoffa di arredamento, un raso di seta rosso ricamato nero. Ma l’iconicità non sta mai solo nell’abito, sta in come è raccontato, in come è mostrato da regista. Matteo lo ha ambientato in un labirinto, con Salma Hayek che corre e lo strascico dietro di lei… Mentre osservavo le riprese capivo che quel costume sarebbe rimasto.

Chiudiamo con un gioco. Domanda secca: un film che avresti voluto fare?
Donne
di Cukor. Strepitoso. Non c’è un uomo in tutto il film. E i costumi… Beh era l’America degli anni Trenta.

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