Mondo vegetale e politica

La mostra “Vegetation as a Political Agent” al PAV di Torino racconta dal punto di vista del conflitto sociale la relazione profonda, impegnata e impegnativa, che esiste da sempre tra uomini e piante.

Immerso nell’odore di cuoio di un macchinone da agente immobiliare, Ostrica osserva il tappeto dorato di Brassica tournefortii in piena fioritura srotolarsi al di là del finestrino. La luce itterica riflessa gli tinge gli occhi e la pelle di giallo.

“I cowboy non avevano le erbe molli”, dice agli altri passeggeri dell’abitacolo, improvvisando una lezione di storia coloniale delle specie vegetali. “I semi di questi arbusti sono arrivati in America dall’Eurasia solo verso la fine del diciannovesimo secolo, trasportati dalla lana delle pecore. Quegli alberi argentati laggiù sono olivi di Boemia. Le centinaia di foglie simili a orecchio di coniglio bianche che crescono lungo l’autostrada sono piante di Verbascum thapus, volgarmente detto tassobarbasso. Gli alberi scuri e contorti che abbiamo appena superato: Robinia pseudoacacia. Gli arbusti dai fiori giallo acceso: ginestre dei carbonai. Fanno tutti parte di una grande pandemia biologica”. Ostrica si sbottona la camicia, sbuffando col naso. “Avete presente quei vecchi western hollywoodiani?”, domanda agli ammutoliti viaggiatori dopo una lunga pausa. “Quelli con i ciuffi di sterpi che rotolano nel deserto?” Scuote la testa. “Nessuna di queste piante è originaria del posto. Quella che noi chiamiamo natura, non è che uno dei tanti aspetti della devastazione compiuta quotidianamente dall’uomo. Ogni dente di leone è una bomba atomica innescata”. L’automobile sbanda sul bordo ghiaioso della strada, sollevando un nugolo di polvere. Ostrica scruta con gli occhi gialli da civetta le bionde colline in lontananza, infestate da colonie aliene di senape marocchina. “Alla fine”, dice, “l’unica biodiversità che ci rimarrà sarà quella tra la Coca e la Pepsi”.

In apertura: Piero Gilardi, O.G.M. Free, 2014. Sopra: RozO (Philippe Zourgane e Severine Roussel), When vegetation is not decoration, 2014

Uscito dalla penna al vetriolo di Chuck Palahniuk, l’intransigente ambientalista e aspirante ecoterrorista Ostrica del romanzo Ninna Nanna mette a fuoco, in un giro di batture on the road, alcuni dei temi fondanti dell’esposizione “Vegetation as a Political Agent”, un progetto ospitato dal PAV – Parco Arte Vivente di Torino, e realizzato in collaborazione con l’Orto Botanico della città, che racconta, dal punto di vista del conflitto sociale, la relazione profonda, appassionatamente impegnata e impegnativa, che esiste da sempre tra uomini e piante. A partire dall’alto neolitico, quando la coltivazione del grano ebbe un ruolo decisivo nel configurare la nascita delle prime formazioni comunitarie stanziali, fino alle primordiali forme di globalizzazione economica, che definivano, attraverso le piantagioni coloniali e i mercati via mare, i primi sistemi di controllo delle specie, o alle più recenti espressioni di oppressione postcoloniale esercitate dalle multinazionali agricole mediante l’ingegneria genetica applicata alle semenze. “Questa mostra nasce dalla volontà di restituire una storia politico-sociale al mondo vegetale”, dice il curatore Marco Scotini, “e di riconoscere nell’elemento vegetale un momento di emancipazione sociale, di disobbedienza e resistenza alle pratiche di assoggettamento perpetrate dall’esercizio del potere. Il verde non è oggi qualcosa da proteggere semplicemente, ma da reinventare”.

Amilcar Cabral, libri e cartoline

Riversata nella vasca a forma di cellula vegetale del Parco d’Arte Vivente – un’oasi rigogliosa di 23.000 metri quadrati placidamente adagiata in un’area ex industriale – la collettiva “Vegetation as a Political Agent” è come una ruota a dodici raggi, e l’energia che la fa girare è quella di artisti, attivisti, agronomi, architetti, naturalisti, che hanno fatto della nobilitazione dell’ecosistema-mondo un impegno esclusivo della propria ricerca – a volte con spirito voluttuosamente romantico a volte con piglio decisamente battagliero. Una mostra terribilmente rigorosa, sì, ma anche dilettevole e inebriante come un dopobarba alla serenella, che colloca nell’opera di RozO (Philippe Zourgane e Séverine Roussel), Quando la vegetazione non è decorazione (2014), il suo campo gravitazionale. Qui, all’ombra di una provvisoria architettura di bambù e foglie di cocco – un tipo di capanno costruito nell’isola della Réunion per ricordare i 150 anni dall’abolizione della schiavitù – due brulicanti sciami d’immagini contrappongono i fotogrammi tratti dal film Chien thang Tay Bac (La vittoria del nord ovest), girato nel 1952 dalle forze militari Viet Minh durante la guerra contro l’occupazione francese (vinta proprio grazie alla costruzione di ponti fantasma di vegetazione sotto il pelo dell’acqua), alle bucoliche fotografie della mietitura del grano in Algeria scattate nel 1956 e nel 1958 dall’esercito francese, che mostrano il paesaggio magrebino impietosamente asservito alla dominazione straniera. Come a dire che la vegetazione può essere tanto strumento di conquista quanto dispositivo di resistenza all’occupazione. A un tiro di sasso, un’aiuola avvizzita e stressata da un bagno energico di erbicidi e diserbanti (Steril Field, del collettivo Critical Art Ensemble) diviene teatro dello sterminio delle specie invasive non geneticamente modificate, mentre una colonia violacea di Mesembryanthemum (una pianta originaria dell’Africa meridionale che l’artista sudafricano di origine svizzera Dan Halter ha seminato nel cuore del PAV la scorsa primavera) assume nel momento di piena fioritura le sembianze dell’alieno del famoso videogioco Space Invaders.

Imre Bukta, Cow Dung As Medium I-II, 1976

All’interno del museo, la voce di Amilcar Cabral, agronomo e politico guineense che nel 1973 portò la Guinea Bissau e le isole di Capo Verde all’indipendenza dal Portogallo (qui ricordato nel cortometraggio Conakry di Filipa César), si alza vellutata come un’esalazione di fumo al mentolo. Tutt’attorno, fermentano i molti racconti di progetti comunitari faticosamente germogliati in questi ultimi trent’anni come papaveri tra le pietre: dalla comunità agricola The Farm di Bonnie Ora Sherk, sbocciata ai margini dell’autostrada di San Francisco nel 1974, ai giardini collettivi di Boston, all’orto autogestito di Marjetica Potrč all’Ubuntu Park di Soweto, in Sudafrica (2014). La testa gira di qua e di là. In una stanza si può ascoltare quello che va dicendo a Nomeda & Gediminas Urbonas il legislatore Mel King sui vantaggi della permacoltura urbana. In un’altra è Adelita Husni-Bey a raccogliere le proteste treesitting di una comunità di attivisti inglesi, mentre poco distante Fernando García-Dory rilancia il pioneristico modello per il riciclaggio dei rifiuti di George Chan. Si noteranno le originali bustine di sementi biologiche per il ri-equilibrio del suolo di Ayreen Anastas & Rene Gabri, e il potente murale Zapantera Negra con cui Emory Douglas si prende la briga di riannodare le ideologie opposte del movimento delle Pantere Nere e dell’Escuelita Zapatista a sostegno del proletariato rurale. Alla pièce teatrale Stop Pollution! messa in scena nel 1983 da Piero Gilardi nella riserva indiana Mohawk, accordata su un tono decisamente carnevalesco, si accostano le più intimiste azioni agricole auto-coreografate da Imre Bukta negli anni Settanta: un contributo di una disciplina concettuale a tutta prova, in cui l’artista ungherese si presta, come un albero da frutto, a molteplici innesti identitari. Infine, una serie di cartoline da una secca e afosa giornata in Messico dove si coltiva illegalmente il mais transgenico, inviate al curatore della mostra da Claire Pentecost, e un ideale corteo in difesa della biodiversità guidato da tre belligeranti pannocchie ipernutrite (O.G.M. Free di Gilardi), ci ricordano come gli organismi geneticamente modificati siano il nuovo simbolo coloniale della modernità.

In che modo, attraverso la vegetazione, sia possibile produrre uno spazio di fuga al controllo e alla sorveglianza è una domanda davvero profonda, che può significare cose diverse. In questo senso, l’indagine a tutto campo di “Vegetation as a Political Agent” si spinge oltre i giardini dell’antropocentrismo, per promuovere nuove forme comunitarie nel segno dell’ecologia sociale e dell’etica ecosofica, prima che della natura non rimanga che il ricordo, come un aroma di colonia che permane su un antico fazzoletto.

© riproduzione riservata

RozO (Philippe Zourgane e Severine Roussel), <i>When vegetation is not decoration</i>, 2014
Ayreen Anastas - Rene Gabri, <i>Semi di sussistenza</i>, 2012
Bonnie Ora Sherk, <i>Crossroads Community (The Farm)</i>, 1974-in corso
Emory Douglas,<i> Zapantera Negra</i>
Piero Gilardi, <i>Stop Pollution!</i>, 1983
Adelita Husni-Bey, <i>A Treesitting Archive</i>, 2008
Fernando García-Dory, <i>Dream Farms, The Lost Path: Learning from George Chan’s Legacy</i>, 2009-2014
Dan Halter, <i>Mesembryanthemum Space Invader</i>, 2014


fino al 2 novembre 2014
Vegetation as a Political Agent
a cura di Marco Scotini
PAV – Parco Arte Vivente
Via Giordano Bruno 31, Torino