Nel 2009 il leader libico Muammar Gheddafi arriva in visita in Italia per incontrare l’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, con appuntata sul petto la foto di Omar al-Mukhtar: il capo della resistenza libica che i coloni fascisti italiani impiccarono nel 1931. In occasione della firma del Trattato di amicizia e cooperazione, Berlusconi espresse “in nome del popolo italiano” le proprie scuse per le ferite causate dal periodo coloniale, impegnando l’Italia a versare alla Libia cinque miliardi di dollari in investimenti come forma di compensazione.
Sedici anni dopo, a Bengasi, seconda città della Libia, una mostra di architettura prova a dare seguito a quella richiesta di confronto: “Postcolonial Reclamations: From Al-Berka to Sidi Hussein”, allestita alla Barah Gallery, riporta l’attenzione sul ruolo dell’architettura come strumento di conquista — e come mezzo per riscrivere la storia.
C’è una mostra sull’architettura coloniale italiana in Libia ma nessuno ne parla
“Postcolonial Reclamations” mostra come l’architettura può riappropriarsi di edifici che “sembrano piovuti dal cielo”. Il curatore Jawad Elhusuni la racconta a Domus.
Foto Sanad Egrima
Foto Sanad Egrima
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- La redazione di Domus
- 02 novembre 2025
Una mostra che non rappresenta ma "reclama” il passato
La curatela è di Jawad Elhusuni, fondatore dello studio JE-Architects, che da anni lavora sul rapporto tra forma architettonica e memoria postcoloniale. È lui a spiegare a Domus l’idea alla base della mostra: “La reclamazione parte dalla conoscenza: è fondamentale capire perché certe decisioni furono prese in un determinato modo”. In sostanza, per intervenire sul presente, bisogna comprendere le scelte progettuali del passato.
Riappropriarsi significa sovvertire questa eredità complessa: cambiare le forme, i materiali, e persino la funzione delle strade, trasformandole da strumenti di controllo in luoghi di partecipazione e trasparenza.
Jawad Elhusuni
Racconta che nel 1932 gli architetti italiani Alberto Alpago Novello, Ottavio Cabiati e Guido Ferrazza ricevettero l’incarico di redigere un piano regolatore per Bengasi: elogiavano quello del 1914, che prevedeva “una chiara separazione tra la nostra città — quella dei coloni italiani — e la città indigena”. E con il nuovo piano volevano accentuare questa separazione.
Si trattava di un vero e proprio “apartheid architettonico” che ha popolato la città di quartieri-ghetto e da punti e di confine e di controllo per i libici. Uno di questi – Al-Berka – è al centro di The Secret Casket, una delle opere esposte in mostra che meglio riassume la violenza silenziosa dell’urbanistica coloniale. Raneem Benfadhl trasfroma un incrocio di strade italiane in un piccolo giardino con fontane nascoste, ispirati ai paesaggi d’acqua dell’est libico.
“Senza la conoscenza della storia non è possibile proporre nulla di davvero significativo. Riappropriarsi, allora, significa sovvertire questa eredità complessa: cambiare le forme, i materiali, e persino la funzione delle strade, trasformandole da strumenti di controllo in luoghi di partecipazione e trasparenza”, conclude Elhusuni.
Le opere in mostra: dieci modi per riscrivere Bengasi
Dieci progettisti guardano a dieci edifici che li sono piovuti dal cielo, edifici con cui sono stati costretti a confrontarsi fin da piccoli — i fantasmi del passato coloniale.
In The Protagonist, Islam Alfallah progetta una scuola nel quartiere di Al-Berka, le cui facciate vengono lentamente coperte da una pianta invasiva, l’Ipomoea indica: un gesto simbolico che mostra come anche l’architettura razionalista coloniale può nulla di fronte alla natura. Palm Station di Saif Elhasi sostituisce il cemento della vecchia stazione di Bengasi (ormai demolita) con il legno di palma, materiale locale e “primitivo” nella logica coloniale. La Mud School di Ali Alnaas parte invece dal terreno rosso di Bengasi, ricco di ferro e argilla, per esplorare l’uso del fango come materiale strutturale — in dialogo con le ricerche di Lina Ghotmeh e Diébédo Francis Kéré.
La Stazione di Rukayya Gargoum ritorna sulla Stazione di Bengasi Centrale, costruita dagli italiani, e propone la ricostruzione di questa e di altri monumenti storici “così com’erano”, reinventandone solo gli interni – come avvenne a Varsavia nel periodo della ricostruzione dopo la Seconda guerra mondiale.
Tra i progetti più poetici, Kaleidoscope di Suha Albarasi, reimmagina una scuola attraverso gli occhi di un bambino, con colori e geometrie ispirate ai disegni del disegnatore britannico Quentin Blake.
Un confronto ancora aperto
In mostra ci sono anche progetti realizzati, come quello firmato dallo studio di Elhusuni per la riqualificazione di Piazza Maydan al-Shajara, il cuore urbano di Bengasi, che durante il periodo coloniale italiano era stata ribattezzata Piazza Cagni. Grazie al progetto di JE-Architects, la piazza ha oggi ritrovato non solo il suo nome originario, ma anche una nuova dignità architettonica: al posto del marmo di Carrara sono stati introdotti materiali nordafricani, in un gesto di riappropriazione simbolica e postuma del centro nevralgico del progetto coloniale italiano sulla città.
Un altro progetto su cui Elhusuni si sofferma è quello del fotografo Ali Elyadry, autore di una serie di immagini dedicate ai mulini abbandonati dell’azienda italiana Reggiane, nella zona portuale di Bengasi. Le Officine Meccaniche Reggiane, tra le principali industrie meccaniche italiane tra le due guerre, costruivano di tutto — aerei, locomotive, macchine agricole — e avevano una presenza significativa anche in Libia. “Quando Elyadry ha scoperto che la Reggiane produceva anche bombardieri,” racconta Elhusuni, “tutto ha assunto un significato diverso. Ci sono così tanti strati di storia irrisolta tra Libia e Italia”.