Progettare edifici che non si vedono: 15 architetture mimetiche

Da Tadao Ando a Big, da Mvrdv a Zaha Hadid, abbiamo esplorato alcune possibili espressioni dell’architettura mimetica, tra “sparizioni” ipogee, topografiche o concettuali.

Nascondersi, cammuffarsi nella natura è una pratica adottata fino dall’antichità alle più diverse latitudini, scaturita da ragioni difensive, rituali o di controllo climatico: dagli insediamenti rupestri del paleolitico alle case ipogee berbere del Maghreb, dalle pit houses nordamericane ai villaggi yaodong cinesi, le architetture “mimetiche” (sotterranee o integrate nel territorio) seguono il fil rouge della “compenetrazione” tra naturale e artificiale e della minima riconoscibilità dall’esterno.

In epoca recente, il pensiero architettonico ha fatto del “camouflage” un campo di ricerca compositiva, esprimendo una dicotomia tra “natura” come habitat vegetale e organico e “città” come prodotto antropico e inorganico, gradualmente consolidando una sensibilità ambientale: a partire dagli anni ’70, la bioarchitettura ha diffusamente indagato il tema delle costruzioni ipogee, con la loro ridotta impronta ecologica, la loro capacità di “svanire” nel paesaggio e le ottime prestazioni di risparmio energetico, isolamento termoacustico e stabilizzazione microclimatica (per via dell’inerzia termica del terreno).

Al camouflage ipogeo si aggiungono però anche altre modalità di “sparizione”, dettate non solo da urgenze ecologiche ma anche (e talvolta soprattutto) da aspirazioni scenografiche: dalla mimesi “topografico-materica”, per cui l’architettura si intreccia con la struttura naturale del sito adattandosi ad esso e reinterpretandola nei materiali e textures, a quella specchiante, l’annullamento visivo attraverso giochi di riflessi che trasforma l’edificio in un miraggio.

Dalla Svezia all’Arabia Saudita, dalla Spagna al Giappone, abbiamo esplorato alcune possibili espressioni dell’architettura mimetica: un approccio radicale al costruire che, al di là di ogni fascinazione letteraria (a partire dalle Città Invisibili di Calvino), apre a possibili riflessioni: se da un lato, infatti, costruire per “scomparire” può intendersi come una negoziazione tra cultura e natura, soprattutto in determinati contesti climatici e paesaggistici, dall’altro può dare adito a una retorica ambigua, dello stigma, che intende l’architettura come qualcosa da nascondere, senza tuttavia affrancarla dall’inevitabile impatto ambientale correlato a qualsiasi gesto umano.
E apre al dubbio che, proprio perché non si vede, l’architettura finisca per essere (paradossalmente) legittimata ad espandersi ovunque, purché stia sottoterra, dietro alle foglie o a uno specchio.

Immagine di apertura: Henning Larsen, Eysturkommuna Town Hall, Norðragøta, Isole Fær Øer 2018 

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