L’importanza di un atlante dei luoghi e delle architetture queer, oggi

“La queerness può salvarci”, spiega a Domus Adam Nathaniel Furman. Il designer ha recentemente pubblicato Queer Spaces, un atlante di luoghi LGBTQIA+ curato insieme allo storico storico dell’architettura Joshua Mardell, da cui abbiamo selezionato sei progetti fondamentali.

Designer e artista di fama internazionale, Adam Nathaniel Furman ha recentemente pubblicato, in collaborazione con lo storico dell’architettura Joshua Mardell, un atlante di 90 spazi LGBT+ di tutto il mondo. Riunendo nelle pagine una comunità di collaboratori capaci di sfidare la morale cis-eteronormata anche in termini spaziali, Queer Spaces: An Atlas of LGBTQIA+ Places and Stories è un libro che parla di comunità e affetto, prima ancora delle necessità formali dello spazio.

“Il volume è il risultato di un viaggio iniziato molto tempo fa con la mia esperienza universitaria” ci racconta durante una lunga chiacchierata Adam. “In quel periodo sentivo la necessità di esprimere anche nei progetti la mia identità, la mia omosessualità, affrontando però continue umiliazioni per questo. Per stare a galla ho cercato di inquadrare il mio lavoro all’interno di questioni che andavano di moda in quel momento o che interessavano alle persone del mondo accademico. E quando sono arrivato finalmente negli spazi in cui la gente mi chiedeva di condividere me e il mio lavoro liberamente, è emerso che sono apparentemente l’unico designer che è riuscito ad andare avanti spingendo l’identità attraverso la cultura visiva nel mio design, sempre in modo non ostentato e molto aggressivo. Da lì stranamente molte persone hanno iniziato a rivolgersi a me come punto di riferimento. Sono stato invitato a Berkeley e a Harvard per delle lecture – sempre da studenti, mai da professori –, e dopo l’esperienza di un paper per l’Architectural Review sono stato chiamato da RIBA Publishing nel 2017 per scrivere un libro sul postmodernismo (Revisiting Postmodernism, Adam Nathaniel Furman e Terry Farrell, 2017)”.

  

“Alla RIBA Publishing c’è stato recentemente un cambio di team, con Helen Castle come nuova Direttrice Editoriale, prima donna redattrice con la voglia di dare una scossa e fare cose nuove. Il libro non sarebbe stato realizzato da nessun altro editore. Non rientra in nessuna categoria. Potrebbe sembrare un coffee table, e forse lo è ma non solo”.

Il volume è un progetto ambizioso nel suo senso più intimo. Con una carrellata di esempi di luoghi vasti e eterogenei, le pagine raccontano una delle tante minoranze da sempre escluse nelle bibliografie accademiche. “Io e Joshua continuiamo a ricevere foto da studenti nel Regno Unito e in Irlanda, che nel mostrare il loro progetto di tesi hanno il libro aperto. Negli ambienti universitari c’è sempre un candidato che potrebbe fare riferimento a un teorico o a un -ismo o a un architetto, mettono uno scarabocchio sul muro e tutti direbbero: ‘Ah, questo mi ricorda l’oscurità nell’architettura giapponese’ o frasi del genere. Gli studenti queer che presentavano il loro lavoro dovevano inventarsi il proprio linguaggio. Ma non si può pretendere che le persone inventino tutto da zero. Questo è un libro pubblicato dal RIBA, l’Istituto Reale degli architetti britannici, anche il più anziano dei docenti non può rifiutarlo” continua Furman. “Non dico che il libro risolverà il problema, ma solo il fatto che se è stato inquadrato pubblicamente, significa che c’è anche una soluzione.”

Non dico che il libro risolverà il problema, ma solo il fatto che se è stato inquadrato pubblicamente, significa che c’è anche una soluzione

I 90 esempi sono raccolti con modalità enciclopedica in tre categorie: domestic, piccoli microcosmi che si occupano di coloro i cui stili di vita erano vietati nella sfera pubblica; communal, spazi di aggregazione e condivisione della comunità; public, manifesti di espressione nella sfera urbana.“Per l’elenco dei riferimenti io e Josh abbiamo usato un metodo misto di open call e networking. Per circa sei mesi abbiamo contattato amici e colleghi, ma ritrovandoci con una lista troppo prevedibile. Così abbiamo intrapreso questo lunghissimo viaggio di ricerca da i centri culturali più noti ai club più piccoli. Abbiamo un sacco di riferimenti che non abbiamo potuto inserire nel libro per questioni di sicurezza, perché avremmo messo in pericolo le persone che li abitano. Mi sarebbe piaciuto avere molti più spazi in Nord Africa”.

Queer Spaces. An Atlas of LGBTQIA+ Places and Stories. Copertina

Ed è proprio nell’analisi spaziale che il tema della sicurezza diventa centrale nei progetti dedicati o trasformati per ospitare nuclei di comunità queer. Pochissimi sono gli esempi di luoghi completamente aperti verso il fronte strada e il resto della città, dando precedenza invece alla creazione di un nucleo intimo dove sentirsi protetti, spesso chiamati con la connotazione di safe space. Ma se il rapporto onesto con l’esterno è pensabile, e attuabile, in metropoli di stampo occidentale, non si può dire altrimenti per il resto del mondo. “Da un lato, ci sono esempi iconici come il Pride Center a Melbourne. Questa enorme istituzione governativa, aperta a tutte le persone queer, offre spazi per l’avvio di attività commerciali, spazi per eventi e altro. È un’architettura spettacolare, disponibile al pubblico, aperto, come se si entrasse in una biblioteca.” Secondo Furman questo edificio è quasi post-queer, perché è completamente aperto e sicuro. 

Il lato struggente o malinconico della storia queer in termini di spazi è l’isolamento

Certamente la lontananza dai luoghi di comunità e la mancanza di informazione sono stati arginati in modo importante dalla realtà virtuale. Vista anche l’esperienza degli ultimi anni di isolamento per pandemia, social come Tik-tok sono diventati per la gen-z vere piazze di incontro e condivisione. “Tra i luoghi collettivi reali e virtuali c’è una complementarità. E credo che ci sia una bella descrizione di questo aspetto nel Kloset Yuri Book Club di Bangkok, una sorta di club del libro di donne lesbiche e persone gender nonconforming, che persone che si incontrano online usano come punto di ritrovo sicuro. Diventa un modo per portare il digitale nel fisico, perché penso che il fisico visceralmente necessario. Dovete aiutare le persone, dovete toccare le persone. Avete bisogno di discutere, avete bisogno di persone a caso che incontrate mentre guardate un libro. Queste cose devono accadere perché non ci si senta completamente isolati e soli”.

New Sazae, Tokyo, Giappone
La storia degli esseri umani può essere raccontata attraverso i materiali, espressa attraverso i tessuti, nell’arte così come nell’architettura. Non attraverso tipologie spaziali teorizzate da decenni

Ma se sin dagli anni accademici gli studenti di architettura sono abituati a rapportarsi con un un linguaggio molto specifico – rappresentazione visiva della cultura di un’élite molto ristretta – cosa ci possiamo aspettare dal mondo dell’architettura nei prossimi decenni di fervida rivoluzione queer? E come cambierà la stessa professione? “Libertà. Il mondo dell’architettura è l’ambiente più fascista che abbia mai sperimentato in vita mia. La storia degli esseri umani può essere raccontata attraverso i materiali, espressa attraverso i tessuti, nell’arte così come nell’architettura. Non attraverso le tipologie spaziali teorizzate da decenni o secoli. E questa è una storia molto semplice da raccontare” conclude Furman. “Può salvarci perché la professione è un incubo, è fatta di atteggiamenti ora alla moda ora di miseria, a partire dal modo in cui le persone vengono trattate nei luoghi di lavoro, fino al fatto che tutti, a parte una minuscola minoranza, devono lasciare la propria identità alla porta e non possono esprimersi. E la queerness è ambigua. È fluida. È dinamica. È impossibile da definire.”

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