Dal moderno al pop, come nasce il teatro Ariston di Sanremo

Nei disegni e nelle immagini che lo Studio Lavarello ha condiviso con Domus, entriamo dentro l’architettura per lo spettacolo più importante d’Italia (per una settimana, ma tutto l'anno).

Negli anni ’20 più che mai, l’Italia si è abituata al capovolgimento annuale dei suoi epicentri culturali, che – volenti o nolenti le anime belle – a fine inverno vanno tutti a collassare nella riviera ligure di Ponente. A Sanremo, in sintesi. Cinque giorni di Festivál della Canzone Italiana. Una sola città costiera dalle anime diversissime – molte necessitanti ristrutturazione – un solo tempio centrale, vissuto più digitalmente che fisicamente, ma uno. Il Teatro Ariston. Che peraltro, nemmeno era nato per questo scopo. Ancora di più: non è scontato, con le scenografie dell’ultimo decennio che hanno spinto le loro spire di ledwall fino a lambire la galleria, e l’orchestra in braccio al pagante pubblico, che si possa affermare di sapere cosa ci sia lì sotto; cosa sia l’Ariston, in fin dei conti.

Il Cinema Teatro Ariston è l’espressione di una fede modernista e figurativa al tempo stesso che viene da un’Italia in pieno decollo economico postbellico. Quello che nasce nella seconda metà degli anni ’50 sulla via Matteotti – e diventerà palco del festival solo nel 1977 – è un progetto di professionisti genovesi, Marco Lavarello, che si concentra sugli allestimenti interni, Dante Datta, Franco Ravera, Angelo Frisa alle strutture e Gino G. Sacerdote all’acustica. 

È una sala dagli elementi di carattere forte: il soffitto plissettato come un tessuto, capace di giocare con l'illuminazione e al tempo stesso di contribuire al comfort acustico; il colore rosso, tradizione delle sale da spettacolo; e quei corpi luminosi su disegno, paesaggio fisso delle dirette TV dai ’70 ai ’90, eleganti cluster geometrici di cui con Antonio Lavarello, architetto, ricercatore e curatore dell’Archivio Studio Lavarello, abbiamo potuto ricostruire tutta la gestazione e la nascita, “dal primo schizzo di un ‘grappolo’ di luci, alla definizione geometrica basata sull'esagono, alle luci installate a ritmare le balconate passando per il prototipo messo a punto dall'azienda Barovier e Toso di Murano”, gli scoppi di fiori vetrati che intervallano i cluster.

Nel foyer e nella scala, i pavimenti disegnati a campi romboidali di marmi policromi richiamano il Gio Ponti della Villa Planchart o di via Dezza a Milano, mentre sul soffitto a falde della platea interviene la pittura di Carlo Cuneo, con cui Marco Lavarello vantava un’altra collaborazione tutt’altro che convenzionale: l'auditorium della turbonave Leonardo Da Vinci.

Proprio questi due progetti ci raccontano molto di Lavarello e dell’Italia a cui davano un volto: il giovane progettista genovese che aveva collaborato con Luigi Carlo Daneri e Dante Datta, col suo studio aperto a fine ‘50 avrebbe lavorato in interior design, nel temporaneo, nella grafica, e nell’allestimento navale, nautico e aeronautico. Tantissime le sue sale da spettacolo, immobili e non, realizzate in autonomia o in collaborazione: oltre ai teatri Nuovo Margherita, Politeama Genovese, Duse, a Genova, quello smontabile per il Festival Internazionale del Balletto ai Parchi di Nervi, Lavarello firma anche gli auditorium per i transatlantici, il già nominato Leonardo Da Vinci (con Marinella Ottolenghi) e Michelangelo (con Mario Gottardi): quest’ultimo per qualche tempo sarà il più grande teatro galleggiante del mondo.  Automatico, per quanto molto più pop, indulgere in un confronto con la nave da crociera che da qualche anno ha il compito di sdoppiare il dispositivo magico dell’Ariston nei giorni del Festival.

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