Permeabilità e inclusività nei nuovi centri comunitari di Città del Messico

Progettati da Workac e Iua Ignacio Urquiza Arquitectos, i Pilares Azcapotzalco e Lomas de Becerra appartengono a una nuova generazione di centri che si richiama all’eredità modernista dell’architettura pubblica messicana.

Questa intervista è stata pubblicata in origine su Domus 1084, novembre 2023.

Toshiko Mori: Questo numero di Domus è dedicato alla temporalità. Abbiamo deciso di concentrarci sulle condizioni d’incertezza e imprevedibilità oggi presenti in diverse parti del mondo, sul modo in cui i cambiamenti climatici, le circostanze socioeconomiche e politiche stanno destabilizzando le comunità e sulle soluzioni che gli architetti stanno ideando per gestire e progettare spazi e strutture. Quali sono le problematiche specifiche del vostro contesto di riferimento?
Ignacio Urquiza: Come la maggior parte delle grandi aree urbane del mondo, Città del Messico presenta enormi contrasti tra il verde, la vivace vita culturale dei suoi quartieri ricchi e le evidenti disuguaglianze delle comunità meno servite, la cui vita quotidiana è caratterizzata dalla precarietà. Molti abitanti di questa megalopoli devono fare i conti con salari bassissimi, instabilità lavorativa, violenza incombente e una scoraggiante mancanza di servizi e infrastrutture pubbliche. Nel 2018, l’amministrazione locale ha lanciato l’iniziativa Pilares (acronimo di “punti di innovazione, libertà, arte, educazione e saperi”), che prevedeva la creazione di 100 centri comunitari distribuiti nei quartieri più svantaggiati della città.

Ogni struttura è stata concepita per ospitare vari tipi di corsi e laboratori a sostegno dello sviluppo di determinate competenze, oltre che per introdurre in ogni quartiere programmi culturali, opportunità di apprendimento, insieme a spazi sicuri per il tempo libero e l’incontro tra generazioni. Sebbene i primi interventi di questo piano abbiano avuto successo in termini di programma, gli edifici erano spesso progettati e costruiti male, a causa dello scarso controllo sul lavoro delle aziende costruttrici. Nel gennaio 2020, richiamando la forte eredità modernista del Messico in tema di architettura pubblica, il Governo ha deciso di rivolgersi a una serie di noti architetti per progettare e supervisionare la costruzione di altri 26 Pilares, chiedendo a ogni studio di concentrarsi sulle condizioni del sito e del contesto sociale per rispondere alle esigenze specifiche della comunità, seguendo al contempo le linee guida di programmazione stabilite attraverso un ampio coinvolgimento della comunità stessa.

TM: Quali sono i programmi funzionali e le soluzioni architettoniche che avete adottato per far fronte a questi problemi? Avete proposto un approccio alternativo?
Amale Andraos: Quando siamo stati invitati a partecipare – insieme a Ignacio Urquiza Arquitectos (IUA) – era il marzo 2020 e la città era in lockdown. Di conseguenza, una buona parte delle basi programmatiche del progetto erano il risultato dell’impegno per la comunità svolto sul campo dalle organizzazioni sociali locali prima della pandemia. Il nostro sito, nello specifico, prevedeva di ospitare uno spazio per una cyberschool e per corsi di robotica, ma anche per corsi e laboratori di serigrafia e creazione di gioielli. Con questo programma in mano e una visita al sito che l’équipe di Iua ha dovuto fare in forma semiclandestina a causa del lockdown, ci siamo lanciati in una ricerca approfondita sui Pilares esistenti, sfruttando tutto ciò che potevamo trovare in Rete in termini di immagini, fotografie di eventi e altro materiale utile a comprendere meglio gli usi di ciascun centro.

Attraverso questo processo, ci è apparso evidente che ciò di cui i Pilares avevano maggiormente bisogno era, in primo luogo, una connessione intima tra interno ed esterno al livello della strada – dagli accessi diretti all’esterno, verso qualsiasi spazio pubblico potesse essere sfruttato da ciascun lato – e, in secondo luogo, una completa flessibilità per consentire un adattamento organico degli spazi e incoraggiare una pluralità di usi. Ci sembrava fondamentale che i visitatori potessero appropriarsi completamente di questi spazi e trasformarli secondo le loro esigenze. Questi risultati sono stati alla base del nostro approccio: abbiamo progettato l’edificio in modo da preservare gli alberi esistenti, limitandone l’ingombro per massimizzare lo spazio esterno e la connettività tra interno ed esterno. Ne è emersa una struttura leggermente più alta, di cui sono stati fissati solo il nucleo di base e l’infrastruttura, con l’obiettivo di rendere gli spazi accessibili, dotati di servizi igienici e di angoli cottura. Il resto degli ambienti è stato concepito come continuo e flessibile.

TM: Si tratta di edifici comunitari. Quindi, in che modo pensate che una comunità – nuova o esistente – possa integrarsi in questa struttura? La programmazione prevede altri aspetti di inclusività culturale o intergenerazionale?
Dan Wood: L’aspetto più interessante – e, per certi versi, più gratificante per noi – è stato vedere che l’edificio ha subito un processo di appropriazione completamente diverso da quello che avevamo previsto. Mentre alcuni spazi sono utilizzati come da programma, in un ambiente quasi da ufficio con scrivanie e computer, altri sono stati adattati a zone per semplici incontri che vanno dalla mobilitazione politica alle serate di gioco. Nel frattempo, altre aree sono state lasciate più aperte per consentire attività fisica e lezioni: arti marziali, yoga, corsi di danza e hip-hop, dove vediamo emergere chiaramente una partecipazione intergenerazionale e la realizzazione del desiderio di uno spazio in cui vivere, muoversi e imparare. 

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