È possibile immaginare una Milano indie? Una conversazione con Cino Zucchi

La metropoli contemporanea secondo Zucchi è lo spazio che accoglie le nostre esistenze multimodali e multiscalari, ma anche il paesaggio culturale in cui vigono le regole non scritte di un galateo condiviso.

CZA Cino Zucchi Architetti, Edificio residenziale in via Valtorta, Milano. Immagine © Level Archiviz

Questa intervista a Cino Zucchi nasce come un rapido commento a un suo progetto, un edificio residenziale di prossima realizzazione a Turro, in quel nord-est di Milano che da qualche anno è stato ribrandizzato come NoLo (North of Loreto). Si è trasformata in una conversazione a tutto tondo sulla città contemporanea, e sulle strategie e i modi possibili per osservarla, per progettarla e per abitarla.

Con la sua consueta retorica vulcanica eppure controllatissima, compiaciuta della sua sovrabbondanza, citazionista a ragion veduta, Zucchi alterna affondi verticali sul passato e il presente di Milano con escursioni ad ampio raggio attraverso i mondi urbani contemporanei. Alla fine, però, torna nel capoluogo lombardo, e dal piccolo capolavoro architettonico che per lui è casa ­­– un bell’edificio modernista di Gustavo e Vito Latis – si (ci) domanda: è possibile immaginare Una Milano Indie?

 

Il progetto di via Valtorta s’inserisce in una lunga sequenza di edifici residenziali che hai costruito negli ultimi vent’anni a Milano. Cosa significa riflettere sul tema dell’abitazione oggi?

Anche se negli ultimi tempi la nostra visione del fenomeno urbano si è decisamente evoluta, le tipologie residenziali consolidate dalla ricerca del Movimento Moderno sull’alloggio costituiscono ancora la base della realtà immobiliare degli ultimi cinquant’anni. Bisogna quindi rileggere in maniera critica l’esperienza fatta fino ad ora e farla evolvere verso nuove direzioni. Come tuttavia sostiene Douglas Hofstadter nel suo seminale articolo Variations on a Theme as the Crux of Creativity, spesso la metamorfosi di una cosa conosciuta porta molto più in là di un semplicistico “punto e a capo”.

Il tema dell’abitare è delicato, ma ancor più critico è il rapporto tra alloggio e città, che l’urbanistica funzionalista aveva in qualche modo irrigidito. I grandi quartieri del secondo dopoguerra tentavano di riprodurre la solidarietà sociale del villaggio alla scala urbana, ma i pur nobili tentativi di “ingegneria sociale” attraverso meccanismi spaziali sono sempre stati dei fallimenti. Nella metropoli il nostro vicino di pianerottolo non è necessariamente nostro amico. Le ricerche contemporanee sul cosiddetto co-housing rispondono solo in minima parte al problema e spesso contengono semplificazioni che non corrispondono alla naturale evoluzione delle persone, delle famiglie e dei gruppi sociali. La dimensione collettiva non si esaurisce all’interno del singolo edificio, ma va forse considerata anche alla scala del quartiere e a quella metropolitana.

Una riflessione seria sull’abitazione contemporanea e sul suo rapporto con la città deve accettare la natura multi-modale e multi-scalare della vita odierna. Alla scala dell’alloggio, questo significa rifiutare il determinismo funzionalista che assegnava un ruolo specifico a ogni stanza. In una visione più ampia, bisogna comprendere come ogni abitazione si relazioni in modi diversi con la dimensione del quartiere (ovvero la città che si raggiunge a piedi in 15 minuti), con la rete urbana e metropolitana (definita dai 50-60 minuti di percorrenza lungo le aste del trasporto pubblico). E ormai anche con un territorio continentale accessibile con un viaggio in aereo o treno veloce.

Per ragionare sui nuovi spazi abitativi mostro spesso una fotografia di mia figlia ventenne addormentata sul divano tra gli oggetti simbolo della sua esistenza da millennial: lo smartphone, il laptop, una tazza di caffè vuota, i resti di un pasto Deliveroo, un pacco di Amazon. Questa immagine rappresenta il fallimento dell’“existenzminimum” ma anche la sua reinvenzione contemporanea e digitale. Ci invita a riconsiderare con occhi nuovi il rapporto tra la nuova dimensione individuale, intima e connessa, e gli spazi che la ospitano.

 

Tra le immagini proposte dal PGT, Milano città di quartieri è forse quella che sta riscuotendo maggiore successo, tra gli addetti ai lavori e presso l’opinione pubblica. È anche quella più percepibile nei suoi effetti di trasformazione materiale degli spazi della città. Mi riferisco ai moltissimi progetti di piazze e spazi pubblici di quartiere. Cosa ne pensi?

È interessante pensare oggi al concetto di neighborhood non solo attraverso un progetto architettonico e urbano, ma anche e soprattutto da un punto di vista socio-culturale: che rapporto c’è tra una parte di città dotata di una relativa identità storica e le comunità che vi abitano? A Milano esistono aree fortemente connotate da questo punto di vista: via Paolo Sarpi è facilmente identificabile con la comunità cinese, e più di un amico straniero mi ha chiesto quale fosse il “quartiere gay” di Milano, anche se la risposta è meno ovvia che per altre città europee. La cosiddetta “urbanistica tattica” promossa dal Comune ha il pregio di attuare con mezzi minimi grandi operazioni di risignificazione di spazi pubblici anonimi, conflittuali o semplicemente invasi da automobili e panettoni, contribuendo a creare identità e possibilità di identificazione da parti dei cittadini.

L’etnografia classica, spesso percorsa da pregiudizi esotizzanti se non addirittura razzisti, ha sempre identificato unità di luogo e unità culturale: clima, geografia, costumi, gastronomia, religione, leggende, vestiario, giochi infantili, architettura venivano letti in maniera unitaria. Ma nel mondo contemporaneo, reso fluido e connesso da Internet, vediamo ogni giorno la nascita di “etnie atopiche” che trovano la loro unità non nell’appartenenza a un luogo a nella condivisione di codici estetico-culturali. Negazionisti, vegani, militaristi, punk, yuppie sono ormai categorie umane che troviamo in tutto il globo. Mostrano tratti psico-sociali simili in luoghi molto lontani tra loro, e spesso forti conflittualità reciproche all’interno dello spazio fisico di una città.

Il progetto di una “città per quartieri”, a Milano o altrove, non può e non deve avere l’ambizione di “ritopicizzare” o radicare in un luogo questi gruppi legati insieme da gusti e disgusti. Si può costruire un quartiere per gli “sciuri”? Un quartiere per i complottisti? Un quartiere per gli amanti dei gatti? Sarebbe un gioco divertente se non mostrasse connotati inquietanti o addirittura distopici; non dimentichiamo che il passo tra comunità ideologica e “gated community” è più breve di quello che sembra. Ad Ahmedabad un tassista indù non ti porta nel quartiere mussulmano e viceversa, e in molte città del Sudamerica alcune aree sono sorvegliate da vere e proprie polizie private. Evviva quindi la “città di quartieri”, o il “mosaico di sottoculture” a patto che l’identità non diventi divisione sociale, e che si salvaguardi invece la porosità e la continuità dello spazio pubblico che ha sempre contraddistinto la città europea e i valori civili che la fondano. 

Chiara Zucchi. Foto © Cino Zucchi
Chiara Zucchi. Foto © Cino Zucchi

Torniamo all’architettura. Sei considerato il principale erede della tradizione moderna milanese. Hai pubblicato la prima importante monografia su Asnago e Vender [per i tipi Skira, nel 1999, N.d.R.], hai esposto alla Biennale di Venezia il lavoro di Luigi Caccia Dominioni, sei consigliere della Fondazione Magistretti e i tuoi progetti sono ricchi di rimandi a quelli che sono considerati come i maestri locali. In che cosa è ancora attuale l’interpretazione milanese del Movimento Moderno?

In realtà non sono così milanese: pur essendo nato qua, ho avuto un’educazione universitaria americana e ho insegnato in molti atenei europei. Paradossalmente il moderno milanese del secondo dopoguerra è oggi riscoperto e osservato dal mondo intero proprio per un atteggiamento che al tempo fu accusato di compromesso o revisionismo, come nel celebre articolo scritto da Reyner Banham nel 1959 Neoliberty. The Italian Retreat from Modern Architecture. Oggi viene studiato in tutta Europa producendo ricerche e persino un vero e proprio turismo architettonico. A differenza delle ricostruzioni moderniste “dure e pure” di città distrutte dai bombardamenti come Rotterdam o Dresda, la ricostruzione milanese dimostrò una sorprendente capacità di comprensione della struttura urbana. La sua strategia di intervento fu capace di mantenere la struttura viaria esistente, e lo fece inventando un modello insediativo ibrido, capace di dar vita a tipologie abitative moderne e al contempo di ricucire il tessuto circostante.

Molte architetture costruite a Milano tra gli anni ’40 e ’60 sono composte da un corpo basso allineato su strada, che consolida il fronte urbano, e da un edificio alto arretrato perpendicolare ad esso, che sale alla ricerca di aria e luce. Gli interni di quest'ultimo articolano un convincente “modern living” affacciato sul verde dei giardini, interpretando bene lo stile di vita di una borghesia industriosa e culturalmente aperta. Questo modello è stato propugnato da Piero Bottoni nei piani di ricostruzione del centro immediatamente dopo la fine della guerra e poi adottato da molti architetti milanesi come Mario Asnago e Claudio Vender, Luigi Figini e Gino Pollini o Gustavo e Vito Latis, che per inciso sono i progettisti dell’edificio in cui vivo oggi e che amo a dismisura. Il moderno milanese è stato un moderno “gentile” non solo o non tanto sul piano linguistico, ma anche e soprattutto su quello morfologico. È quello che ho cercato di raccontare nel Padiglione Italia che ho curato e allestito per la Biennale di Venezia del 2014, il cui titolo “Innesti/Grafting” allude a questa particolare modalità di intervento nella città e nel territorio.

L’edificio da noi progettato in via Valtorta rilegge in parte questo modello insediativo con una grande attenzione sia verso il suo contesto specifico che nei confronti dei valori abitativi e ambientali di questo secolo. Il programma edilizio è articolato in tre corpi edilizi di altezza diversa, studiati in stretto rapporto con l’orientamento solare, con i fronti degli edifici vicini, con la corte centrale verde e con il giardino adiacente. È un complesso aperto, poroso, con trasparenze calcolate tra la corte interna e la città e con l’episodio del commercio d’angolo che ne enfatizza la presenza urbana.

Cino Zucchi. Disegno © Roberto Malfatti
Cino Zucchi. Disegno © Roberto Malfatti

Parliamo di linguaggio architettonico. Negli ultimi anni, Milano ha subito una piccola invasione di architetture-icona globali piuttosto irrilevanti. Si sono moltiplicate anche le operazioni di retrofitting energetico, spesso su edifici modernisti o tardo-modernisti. Cosa ne pensi?

La qualità media delle architetture nate a Milano negli ultimi due decenni è di gran lunga superiore a quella degli edifici costruiti negli anni ’80 e ’90. La ragione di questo deciso miglioramento è multipla: una maggiore attenzione dei cittadini grazie anche all'opera di divulgazione condotta da giornali e riviste, un maggior impegno degli operatori immobiliari, un nuovo rapporto tra amministrazione pubblica e iniziative private e un minimo di sana competizione con le altre capitali europee. Anche se alcune architetture realizzate a Milano sono evidenti riproduzioni di una sorta di “international style” che oggi va da Astana a Pechino passando dagli Emirati, il loro standard realizzativo ha in ogni caso alzato l’asticella. Sindaci e assessori hanno cambiato marcia e modo di dialogare, e molti imprenditori hanno raccolto e rilanciato la sfida della qualità. Da qualche anno la Commissione del Paesaggio che giudica i progetti, grazie al suo presidente Pierluigi Nicolin e a quelli che sono venuti dopo di lui, è riuscita a condividere con gli attori non solo dei parametri normativi, ma soprattutto una nuova cultura urbana e ambientale. Fortunatamente, dopo un po’ di pur necessaria esterofilia, esiste una nuova generazione di progettisti giovani che rifiuta il carattere commerciale dell’architettura “blobbosa” e una serie di progetti di autori europei tutt’altro che banali. Tra di loro ci sono Herzog & de Meuron, David Chipperfield, Grafton Architects, Sauerbruch & Hutton, Rem Koolhaas.

Se i valori ambientali sono entrati stabilmente, e a ragione, negli elementi fondativi del progetto, non dobbiamo dimenticare che l’architettura è una parte fondamentale di quello che potremmo chiamare “cultura materiale”. Troppo spesso oggi l’accento è messo unicamente sulla procedura piuttosto che sul risultato finale; e purtroppo la performance energetico-ambientale diventa spesso un argomento totalizzante. Attraverso quello che è noto come “green-washing”, distoglie dal tema fondamentale, che è quello della qualità architettonica e urbana in un’accezione più ampia.

Qui rientra la questione del linguaggio: se il linguaggio è ciò che permette la comunicazione tra gli uomini, per farlo deve necessariamente presupporre qualche forma di codice condiviso; se il concetto di urbanità nella lingua anglosassone è sinonimo di buone maniere, si potrebbe dire che ogni edificio dialoga con il resto della compagine urbana a partire da un “galateo” in continuo aggiornamento. Una città ha bisogno di edifici-icona; tra questi, il Bosco Verticale è forse diventato più di altri il simbolo della nuova Milano. Tuttavia, non dobbiamo dimenticare che il paesaggio urbano è costituito dal tessuto intermedio, da tanti episodi che devono possedere un carattere individuale ma che insieme devono saper creare, come i musicisti di un’orchestra, una Sinfonie der Großstadt . Così titolava il celebre documentario di Walter Ruttmann su Berlino, del 1927.

Quando lavoro al mio tavolo da disegno in realtà io non ascolto sinfonie classiche ma solo indie music: motivi musicali apparentemente semplici e orecchiabili, che tuttavia contengono calcolate dissonanze e complessità insperate. Walter Benjamin sosteneva che il cinema e l’architettura sono le vere arti della metropoli perché sono ambedue “fruibili in uno stato di distrazione”. È proprio quello che ho provato a fare in via Valtorta: ho disegnato un edificio che non grida la sua presenza, che può anche essere osservato distrattamente, ma che a un secondo e terzo sguardo rivela dettagli sempre più sofisticati. Contro la dittatura del B.I.M., contro il daltonismo verde, contro una blob architecture degna di Beyoncé, ho immaginato un’architettura di un’ordinarietà dandy, un pop sofisticato. Se fosse una canzone, la canterebbero i New Pornographers o i Belle and Sebastian.

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