Fisica e metafisica del distanziamento: si può parlare di architettura post Covid-19?

I progetti possono muoversi in due direzioni: lavorare sulla lunga distanza, oppure operare su quella breve, con un atteggiamento tentativo incerto.

Questo articolo è stato pubblicato in origine su Domus 1052, dicembre 2020.

Ciò che il periodo sospeso del lockdown della scorsa primavera e quello ancora più vago e ambiguo delle fasi successive stanno dimostrando è come le pandemie siano fenomeni “che vanno contro l’urbanizzazione, contro la democrazia, contro la socialità e contro la globalizzazione. Spingono gli esseri umani a reprimere i loro istinti, per sopravvivere e per proteggere le loro comunità”, come hanno sottolineato Justin Paul Ware, Jorge Lobos ed Eleonora Carrano in una lettera aperta del gruppo del master Emergency & Resilience, di IUAV e UniSS.

Da qualunque parte si osservi la situazione, la questione è chiara: architettura e pandemia non possono dialogare. L’architettura serve per fare incontrare le persone, le misure adottate per contenere il virus per non farle incontrare. Partendo da questi presupposti, non è possibile parlare veramente di architettura post-Covid-19. Non c’è una risposta che l’architettura possa dare alla domanda sollevata da un problema che si colloca esattamente agli antipodi dei suoi fini più generali. È senz’altro vero, però, che l’architettura, congelata in questo istante in cui è privata di molte delle sue funzioni principali, offre un’occasione per essere osservata da fuori, con occhi nuovi, costringendoci a riconsiderarne le priorità.

I progetti nati in risposta alla crisi del Covid-19 possono muoversi solo in due direzioni: lavorare sulla lunga distanza, con nuove priorità, e dare forma a una virata di cui potremo valutare gli effetti solo tra alcuni anni; oppure operando sulla breve distanza con un atteggiamento tentativo, lavorando sull’incertezza, sulla sospensione e rilevando le trasformazioni giorno dopo giorno. Al momento, è evidente che lo spazio pubblico ha riconquistato un ruolo centrale nel nostro quotidiano: seguendo nuove regole, non ci appare più banale o scontato, anzi lo guardiamo e abitiamo con uno spirito rinnovato.

Per cercare di dare forma a norme in continuo aggiornamento e non sempre del tutto chiare, paradossalmente, lo spazio pubblico sta acquisendo una nuova informalità. Grazie al temporaneo alleggerimento delle regolamentazioni sui déhor, costellazioni di tavolini di bar e ristoranti animano i marciapiedi, le piazze e le aiuole, ma anche i cortili interni, i tetti, i patii e i parcheggi, dando forma a un tessuto di spazi aperti abitabili intrecciati tra loro; uno spazio che, fino a qualche mese fa, era invisibile. Se potessimo fare una mappa degli arredi temporanei che si sono riversati nello spazio pubblico in questi mesi, otterremmo una sorta di mappa di Nolli rovesciata, dove gli interni ritrovano fluidità e apertura grazie alla possibilità di espandersi all’esterno.

Pare insomma che, accanto a un certo istinto urbanofobo di fuga, stiamo riscoprendo le nostre città. Da un certo punto di vista, questa condizione di privazione ci induce ad aumentare la sensibilità ricettiva. Se i nostri sensi sono inibiti – il virus spegne gusto e olfatto, le norme per il suo contenimento limitano il tatto e la libertà di movimento – altre facoltà si attivano e ci troviamo improvvisamente a vivere in una sorta di realtà aumentata.

Un caso interessante è quello realizzato dal gruppo toscano di architetti Caret Studio nel centro storico di Vicchio (Firenze), dove una serie di quadrati dipinti a terra secondo una griglia regolare di 1,8 x 1,8 m (misura di contenimento suggerita dalle autorità locali), riveste la piazza centrale del paese creando spazialmente una disposizione normativa astratta, che la rende così più comprensibile, abitabile, persino sopportabile. Nella cittadina pugliese di Locorotondo, la quarta edizione di “Viva!”, festival di musica elettronica nato da una collaborazione tra la società pugliese Turné e la torinese Xplosiva, ha avuto luogo, seppur in misura ridimensionata, con eventi in presenza dalla forte intensità grazie a un progetto audace e poetico. Gli artisti, provenienti da ambiti locali in misura maggiore rispetto al passato, si sono esibiti sui tetti del centro storico, mentre il suono era trasmesso da diversi altoparlanti. In questo caso, lo spazio urbano diventa nel suo insieme protagonista dell’evento e le gerarchie tra grandi edifici per eventi e luoghi della vita quotidiana sono completamente rivoluzionati, aprendo a possibilità inedite per l’architettura e l’urbanistica.

A Bolzano, un piccolo intervento di autocostruzione realizzato da Campomarzio con la partecipazione di un gruppo di studenti dell’università e un teatro locale ha proposto il Bolzanism Museum, un museo del ‘bolzanismo’, tappa-base per un tour guidato performativo tra i quartieri popolari di Bolzano Ovest, che si offre agli abitanti e ai visitatori come una lente attraverso cui rileggere i luoghi ordinari di sempre in una versione ‘aumentata’ di se stessi.

O ancora, a Belmonte Calabro (Cosenza), dove è in corso da anni un processo di rivitalizzazione del borgo coordinato dall’associazione La Rivoluzione delle Seppie: una serie di edifici storici abbandonati è stata recuperata grazie a un patto di collaborazione con il Comune e a una serie di workshop in collaborazione con Orizzontale e la London Metropolitan University. Qui, da ottobre, si sono trasferiti gli studenti di un corso dell’università londinese che, nell’affrontare la didattica a distanza imposta dall’emergenza, trovano una nuova vicinanza con un mondo inesplorato, che si rivela improvvisamente ricco di risorse.

Nina Bassoli (Milano, 1983), architetto e curatrice, insegna all’Università di Bolzano e alla UTPL di Loja, Ecuador.

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