Columbus: Modernismo con l’anima

Il primo film del regista Kogonada è girato tra le icone moderniste di Columbus, come la Miller House di Saarinen. L’architettura è protagonista di un racconto pieno di calore e umanità.

Il cinema non è solo la settima arte. Si dice anche sia una forma d’arte sintetica, che ingloba tutte le altre. Tra le discipline concorrenti all’insieme cinema c’è anche l’architettura. Gli edifici, gli ambienti spesso non sono semplici fondali, ma contribuiscono a costruire i significati e l’ipertesto di un film. Per esempio, è impossibile visualizzare Blade Runner e il suo senso di decadenza retrofuturista lontano dagli ambienti modernisti e “Maya revival” della Ennis House di Frank Lloyd Wright. Tuttavia, è raro incontrare film che letteralmente non potrebbero esistere senza il contesto architettonico nel quale sono ambientati come Columbus, l’opera prima di Kogonada, regista americano di origini coreane approdato dietro la macchina da presa dopo un apprendistato da critico e teorico.

Fig.1 Una scena di Columbus. Sullo sfondo la North Christian Church di Eero Saarinen, 1964
Fig.2 Una scena di Columbus
Fig.3 Una scena di Columbus. Vista dalla Miller House di Saarinen
Fig.4 Una scena di Columbus

Columbus, il film, esiste perché esiste Columbus, una piccola cittadina dell’Indiana soprannominata “l’Atene nella prateria”, un centro urbano del Midwest con poco più di 40.000 abitanti che sarebbe verosimilmente rimasto ignoto al mondo se un maggiorente locale, l’industriale J. Irwin Miller, non avesse fondato nei primi anni Cinquanta la Cummins Foundation allo scopo di promuovere e sovvenzionare una serie di progetti architettonici. L’elenco degli architetti coinvolti, da allora a oggi, è impressionante: ai precursori Eliel ed Eero Saarinen si sono aggiunti, tra gli altri, I.M. Pei, Richard Meier, Robert Venturi, Harry Weese e Deborah Berke.


Tra i landmark più iconici di Columbus c’è sicuramente la Miller House, residenza privata di J. Irwin Miller progettata da Eero Saarinen con il contributo del paesaggista Dan Kiley e del designer d’interni Alexander Girard. Qui, nella sua bellezza iperuranica e museificata, il film si apre e chiude, circolarmente. In mezzo osserviamo l’incontro tra Jin (un traduttore quarantenne, accorso da Seoul al capezzale del padre professore di architettura colpito da ictus proprio durante una visita a casa Miller), e Casey, una ragazza divisa tra l’assistenza alla madre ex tossicodipendente e una prospettiva di carriera universitaria sulla East Coast. Il film ne segue il pellegrinaggio tra gli edifici di Columbus mentre le loro esistenze caotiche e sospese in una sorta di limbo reagiscono con l’architettura logica, razionale, filantropica, costruita allo scopo di migliorare le condizioni pratiche di vita, con influenza reciproca perché il macrocosmo si anima quando si incarna nel microcosmo.

Coumbus, la locandina del fim

“He believes in modernism… Modernism with a soul. An alternative possibility”. Jin e Casey stanno visitando la North Christian Church di Eero Saarinen quando il primo, che sta cominciando a conoscere il padre distante attraverso le sue passioni architettoniche, enuncia il credo laico e umanista del professore. Il Modernismo di Columbus è un’utopia pratica per cui l’ospedale per malati psichiatrici di James Stewart Polshek si configura come un ponte, in senso letterale e metaforico, e la Irwin Union Bank, ancora di Eero Saarinen, fu la prima banca a non voler somigliare a un fortino bensì a veicolare un’idea di trasparenza attraverso le facciate interamente in vetro. “More glass, transparency and light”, esclama Casey osservando gli enormi pannelli di vetro del Republic Newspaper Building di Skidmore, Owings & Merrill: potrebbe essere un motto per l’intera città.

Se l’intera popolazione di Columbus, “la Mecca del modernismo” – professori, guide turistiche o giardinieri – sembra occupata a preservare le cattedrali e officiarne il culto, in realtà mantenersi all’altezza dello scenario è un compito più problematico con ricadute esistenziali. Se per alcuni si rivela un confronto edificante o taumaturgico, nel film vediamo molte vite alla deriva. Ci sono un paio di dialoghi illuminanti a proposito delle nuove tecnologie: Casey e il suo collega bibliotecario discutono del crollo recente dell’attention span e concludono che forse non si tratta di crollo dell’attenzione bensì di crollo dell’interesse nella vita quotidiana, reale. Sempre Casey inchioda Jin alla sua dipendenza da smart phone con la formula “smart phones, dumb humans”. A risultare decisivo nell’economia emotiva di Columbus è quindi il fattore umano. Gli esseri umani sono la parte animata del quadro. Le grandi utopie architettoniche e loro spettacolari realizzazioni resterebbero inerti se non fossero l’ambiente che facilita e informa un incontro tra le traiettorie dei due protagonisti, il quale migliorerà concretamente le loro vite.

Fig.6 Una scena di Columbus nella biblioteca cittadina, progetto di I.M. Pei & Partners, 1969
Fig.7 Una scena di Columbus, nella North Christian Church di Eero Saarinen, 1964
Fig.8 Una scena di Columbus, nella cucina della Miller House di Eero Saarinen, 1957
Fig.9 Una scena di Columbus
Fig.10 Una scena di Columbus

L’attenzione e l’empatia per le storie minime di persone comuni che diventano narrazioni universali, archetipiche avvicina Kogonada al suo maestro dichiarato, il grande regista giapponese Yasujirō Ozu, e in particolare al suo capolavoro Viaggio a Tokyo, cui Columbus è direttamente ispirato. Si tratta di una simpatia ideologica che non può non diventare citazione degli aspetti formali grazie ai quali l’ideologia si manifesta. Spesso la macchina da presa viene posizionata a livello del suolo per richiamare i “tatami shots” che furono trademark del maestro nipponico e certe prospettive che seguono una fuga di stanze potrebbero davvero essere in Viaggio a Tokyo se solo le case non fossero occidentali. Del resto, anche la necessità di un particolare ambiente architettonico per uno specifico racconto deriva della lezione di Ozu e del suo cinema d’interni giapponesi. Ugualmente Kogonada è efficace nell’adeguamento dello stile al paesaggio modernista e costruisce uno spazio rigorosamente cartesiano attraverso copiose simmetrie centrali e carrellate orizzontali.

Columbus è veramente un piccolo (in quanto produzione indipendente) grande film perché non si limita a squadernare i suoi presupposti teorici e cinefili – integrare l’architettura nella narrazione e realizzare una versione americana di una storia “alla Ozu” – ma, sostenuto da ottimi attori finora semisconosciuti al pubblico del cinema colto, costruisce un racconto specifico pieno di calore e umanità. Il minimalismo di Kogonada non è una stilizzazione estetica ma una volontà di ridurre le cose all’osso, alla radice, al nucleo. È precisamente modernismo con un’anima.

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  • Depth of Field, Nonetheless Productions, Superlative Films
  • 2017