Le fotografie giocano un ruolo importante nella formazione di un architetto, perché è anche grazie a queste esplorazioni passive che si prende contatto, visivo non fisico, con l’oggetto architettonico. Il fotografo si assume quindi una grande responsabilità nel trasmettere la propria esperienza dell’architettura, il suo modo di vedere lo spazio. In effetti, fotografare non serve semplicemente a documentare lo spazio, ma implica anche la capacità d’interpretarne la complessità: le immagini sono uno strumento di analisi critica.
Hélène Binet: Transitions
Caratterizzata dalla sintesi estrema, la narrazione fotografica dell’architettura di Hélène Binet è protagonista della nuova mostra della parigina Solo Galerie.
View Article details
- Giaime Meloni
- 04 aprile 2017
- Parigi
Da trent’anni, Hélène Binet porta avanti una narrazione fotografica dell’architettura caratterizzata dalla sintesi estrema, capace di restituire un’esperienza sensoriale sulla base dei cambiamenti di luce sulle architetture. Per quanto possa sembrare banale, la luce e le ombre sono gli strumenti privilegiati del suo lavoro. Nelle immagini della fotografa svizzera è raro vedere un edificio nella sua globalità, la sua volontà è quella d’inquadrare, selezionare una parte del tutto per esaltarne la materia, restituendo la tridimensionalità propria delle opere attraverso l’immagine.
Le sue fotografie si distinguono per la capacità di costruire una relazione intima con l’opera architettonica. Fin dai primi contatti con gli insegnamenti informali di Joseph Hejduk, la sua pratica ha cercato di metabolizzare l’architettura, di digerire l’edificio, costruendo un rapporto diretto con l’oggetto. La sua azione fotografica è concepita come una performance. Hélène Binet rimane fedele alla pratica tradizionale della fotografia in analogico, utilizzando un banco ottico e lastre fotosensibili (quasi sempre in bianco e nero). Il dispositivo fotografico con il suo peso e il suo ingombro permette poche esitazioni e pochi scarti. Così, ogni giorno, Hélène Binet realizza tre al massimo quattro scatti, un numero irrisorio, considerata la bulimia d’immagini dalla quale già Susan Sontag, nel suo testo Sulla Fotografia, ci aveva messo in guardia. L’atto di fotografare eseguito attraverso un rituale fatto di gesti precisi costituisce per la fotografa una transizione temporale: simbolicamente, nel momento stesso in cui l’architettura viene fotografata, si trasforma in rovina, avviene dunque un cambio di statuto dell’edificio tra ciò che esiste e ciò che rimane impresso nella pellicola.
Questa è una delle possibili chiavi d’interpretazione per leggere la mostra “Transitions” (Transizioni) alla Solo Galerie di Parigi. L’esposizione si articola in quattro sale, ognuna delle quali ospita una selezione d’immagini su quattro diversi progetti scelti dall’artista. Lo spettatore è accolto da un trittico raffigurante il ponte sul Basento di Sergio Musmeci, la scelta di quest’oggetto architettonico sembra quasi voler suggerire che la transizione è soprattutto un’azione corporale nel passaggio da un punto a un altro.
La seconda sala ospita un viaggio nel cantiere del Jewish Museum realizzato da Daniel Libeskind nel quale l’edificio è spoglio da qualsiasi ornamento, nessuna porta, nessun pavimento: tutto diventa materia pura e brutale sotto il gioco delle luci che costruiscono lo spazio. Viene allora da chiedersi se la transizione esplicitata nel titolo sia una volontà di dare forma al senso di divenire nel processo di costruzione.
Andando avanti nel percorso, la terza sala ospita le fotografie realizzate nel 1989 alla Saint Mark’s Church di Sigurd Lewerentz. L’attenzione del suo sguardo si concentra sulla pelle dell’edificio e sulla sua relazione con l’ambiente esterno. Tutto si gioca nell’accostamento di otto immagini quadrate, dove la griglia modulare dei mattoni è rotta dalla presenza di alcuni oggetti enigmatici, i candelabri, che come le ombre e gli alberi partecipano alla costruzione di un’atmosfera prettamente nordica e misteriosa attorno all’edificio. Infine, le ultime immagini restituiscono alcuni frammenti dell’Hedmark Museum realizzato da Sverre Fehn nel 1973 a Hamar, in Norvegia. Idealmente, queste immagini costruiscono un riferimento con il ponte di Musmeci, suggerendo allo spettatore il punto di arrivo della promenade architecturale compiuta attraverso le differenti opere.
Mentre passiamo da una sala a un’altra potremmo pensare a una catalogazione delle immagini per progetto; in realtà, le foto si compongono in dittici, trittici e sequenze costruendo uno spazio attorno alle opere. Attraverso queste composizioni mai urlate, ma sapientemente accennate, lo spazio incomincia a diventare spazio anch’esso, non più un vuoto tra due punti. L’esperienza dello spettatore non è solamente nella contemplazione della singola immagine, ma delle relazioni create anche attraverso le diverse stanze. Si tratta quindi di un processo di transizione, concepito come diversi modi di percepire il cambiamento di materia. Si tratta quindi di un processo di transizione, tra diversi modi di percepire il cambiamento di materia. Le immagini di questa mostra restituiscono la complessità di un percorso architettonico, giocato tra variazioni d’identità nel silenzio contemplativo dell’immagine.
© riproduzione riservata
fino al 25 maggio 2017
Hélène Binet – Transitions
Solo Galerie
11 rue des Arquebusiers, Parigi