Met Breuer

Riaperto a marzo scorso, l’ex edificio del Whitney ha la missione di dare spazio alle collezioni del XX e XXI secolo del Metropolitan. Per marcare con chiarezza l’epocale passaggio, la curatrice ha esordito con due mostre dal gusto estremamente sobrio.

All’incrocio tra Madison Ave e la 75ma strada, il Met Breuer appare come un immenso ziggurat rovesciato, un monolite di granito conficcato nel suolo. “Piramide capovolta” lo aveva anche definito un critico, quando nel 1966 l’edificio inaugurò su progetto del grande architetto modernista Marcel Breuer.

In apertura: Met Breuer, la lobby. Photo © The Metropolitan Museum of Art 2016. A sinistra: il Met Breuer. Photo Ed Lederman

Allora però nasceva come Whitney Museum, e lo sarebbe rimasto fino al 2014 anno in cui lo storico museo di arte americana aveva annunciato di trasferirsi nel Meatpacking District in un nuovo edificio disegnato da Renzo Piano. Oggi il prestigioso building di uptown ha riaperto: il 18 marzo scorso infatti è stato battezzato Met Breuer e la sua missione sarà dare spazio alle collezioni del XX e XXI secolo del Metropolitan. Per marcare con chiarezza l’epocale passaggio tra le due celebri istituzioni museali la nuova curatrice ha deciso di inaugurare proponendo una scelta inequivocabilmente antitetica rispetto ai cagnolini kitsch di Jeff Koons che avevano chiuso l’ultima stagione del Whitney.

Met Breuer, la lobby. Photo © The Metropolitan Museum of Art 2016

Sheena Wagstaff, prima alla Tate Modern di Londra, ha infatti esordito con due mostre dal gusto estremamente sobrio: “Unfinished: Toughts Left Visible” è un excursus sul tema del non finito dal Rinascimento ai nostri giorni, mentre “Nasreen Mohamedi” introduce il lavoro di un’artista poco nota al grande pubblico, sorprendente pioniera del minimalismo e della sperimentazione grafica in India. Entrambi gli show sono dunque concentrati sul disegno, un tema sofisticato, legato al pensiero e all’aspetto più intellettuale del lavoro, diventando un chiaro manifesto della nuova linea editoriale del museo che lavorerà per mettere a dialogo le enciclopediche collezioni del Met con l’arte moderna e contemporanea di tutto il mondo, mentre in parallelo la grande sede di Fifth Avenue si prepara alla ristrutturazione dell’ala dedicata al XX e XXI secolo con un grande ampliamento a opera dello studio David Chipperfield Architects.

Met Breuer, la lobby. Photo © The Metropolitan Museum of Art 2016

Il calendario si presenta già molto vario: a luglio Diane Arbus, con una selezione quasi inedita di fotografie del primo periodo, a seguire Kerry James Marshall esploratore della cultura afroamericana e a novembre attraverso gli scatti di Luisa Lambri e Bas Princen saranno i progetti pubblici dello stesso Breuer ad essere protagonisti. Che lo si chiami Whitney o Met, quando si entra nell’edificio i dettagli architettonici e le soluzioni di arredo non smettono di sorprendere: all’ingresso una infinita sequenza di luci, come dischi solari, ricoprono l’intero soffitto diventando un grande tappeto luminoso, quasi un omaggio alle pulsanti insegne dei teatri di Broadway. Salendo nelle sale un avanguardistico sistema di binari a griglia rende mobili i tramezzi espositivi e i fari per l’illuminazione mentre attraverso le complesse finestre strombate la luce penetra negli ambienti senza mai compromettere la lettura delle opere, creando una scacchiera di imperscrutabili occhi sulla facciata esterna dell’edificio.

Met Breuer, le scale. Photo © The Metropolitan Museum of Art 2016

Le scelte di restauro compiute da Beyer Blinder Belle Architects & Planners hanno seguito con cura la filosofia di Breuer fermamente convinto che il passare del tempo e l’usura nobilitino i materiali. Pietra viva e cemento, tipici dell’architettura brutalista, scelti perché vicini alla terra, sono stati semplicemente riportati allo stato naturale; i pavimenti di bluestone lucidati con oli neutri e i legni delle balaustre spogliati della pellicola coprente e riportanti all’opacità originaria. Rimossi tutti gli interventi postumi e ripristinate anche chicche come l’orologio circolare dell’atrio o il meccanismo (all’epoca piuttosto tecnologico) della rastrelliera raccogli soprabiti nel guardaroba, reso di nuovo visibile come da progetto. Il restauro è infatti stato teso a valorizzare tutti i piccoli elementi che contribuiscono a rendere questa straordinaria architettura non un ambiente freddo e distante dallo spettatore, ma al contrario uno spazio a misura d’uomo, quasi intimo: un’accogliente teoria di raffinatissimi salotti dove non si è intimoriti, ma invitati a partecipare e a fruire.

Vista della mostra Nasreen Mohamedi. Photo © The Metropolitan Museum of Art 2016

Il fulcro dell’inaugurazione è certamente “Unfinished” che presentando il quaranta per cento di opere di proprietà del Metropolitan è l’evento più significativo. Disposta su due livelli l’esposizione segue un percorso cronologico diviso per temi e inizia con una citazione di Plinio il vecchio che definisce il lavoro non finito come preziosa rivelazione del puro pensiero dell’artista. In apertura spicca la Scapigliata di Leonardo, opera prestata dalla Galleria Nazionale di Parma. I critici sostengono che nonostante la magnifica testa sia un ritratto lasciato incompleto dall’artista, la scelta di definire dettagliatamente il volto e lasciare approssimata la chioma ribelle sia sta fin dal principio intenzionale. Leonardo doveva essersi ispirato all’ultima rappresentazione di Venere realizzata da Apelle lasciata incompiuta dal celebre maestro greco e non per questo meno ammirata dai suoi contemporanei.

Vista della mostra Unfinished. Photo © The Metropolitan Museum of Art 2016

Tra i maestri del Rinascimento c’è poi l’interessante caso del Salvator Mundi di Dürer un olio su tavola dove il disegno preparatorio finemente eseguito emerge ben visibile sotto la pittura. Si dice che il maestro abbia volutamente lasciato il dipinto in questo stato di transizione per fare sfoggio del suo talento grafico ad allievi e clienti frequentatori del suo studio. Continuando il percorso, di grande impatto è la sala dei Turner dove opere dell’ultimo periodo diventano vedute scomposte, pure evocazioni atmosferiche di paesaggio. Procedendo ancora, l’opera di Giacometti ben rappresenta l’insoddisfazione e la ricerca insaziabile; l’artista era infatti noto per ritornare più e più volte sui suoi lavori non arrivando mai a considerarli veramente finiti e applicando spesso significativi cambiamenti anche a opere già esposte al pubblico.

Vista della mostra Unfinished. Photo © The Metropolitan Museum of Art 2016

Arrivati al secondo piano si è accolti da una sequenza di Picasso e un arlecchino colorato solo a metà, diventa chiara metafora dell’artista moderno, figura incompleta per definizione. Una sala è poi dedicata al rapporto con l’infinito che a partire dagli anni 50, si traduce in lavori realizzati in serie o nella ripetizione di uno stesso tema. Un’altra invece si focalizza sull’interazione con lo spettatore chiamato a completare il lavoro dell’artista in opere di Lichtenstein e Warhol. Il non finito diventa anche distruzione e decadimento volontario, lo testimoniano, tra vari lavori, due sculture di cioccolato e sapone di Janine Antoni; oppure atto in sé e per sé, processo, come nei White Paintings di Rauschenberg, opere sempre in procinto di diventare qualcosa di nuovo, ciclicamente ridipinte da lui stesso e perfino da altri artisti. A chiudere una passeggiata tra gli alberi nel giardino della casa-studio di Cy Twombly a Gaeta realizzata su una sequenza di sei pannelli. Una visione squisitamente italiana dalla quale l’americano non si separò fino alla morte tenendola nella sua collezione privata: difficile poter dire se Twombly stesso la considerasse veramente finita.

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Vista della mostra Unfinished. Photo © The Metropolitan Museum of Art 2016


fino al 5 giugno 2016
Nasreen Mohamedi
fino al 4 settembre 2016
Unfinished
The Met Breuer
945 Madison Avenue, New York