La Biennale di Aravena

Il concept di Alejandro Aravena per la Biennale 2016 può rimettere in gioco l’efficacia degli architetti di fronte a questioni che riguardano tutti, riconciliando l’architettura con il mondo civile.

Elemental, Passeggiata metropolitana a Santiago

“Non c’è nulla di peggio che rispondere bene a una domanda sbagliata”. Così chiude il suo intervento Alejandro Aravena al termine della presentazione di Reporting from the front.

Mentre risulta evidente che questa Biennale solleverà questioni di assoluta rilevanza e urgenza che riguardano l’uomo e il suo rapporto con l’ambiente costruito nella sua complessità – segregazione, disuguaglianze, periferie, accesso ai servizi sanitari, disastri naturali, carenza di alloggi, migrazione, informalità, criminalità, traffico, spreco, rifiuti, inquinamento, qualità della vita – è altrettanto chiaro che è la figura stessa dell’architetto, con il suo ruolo e con le sue responsabilità, a essere chiamata in causa senza possibilità di mediazioni o mistificazioni.
Aravena più volte richiama il potere di sintesi dell’architettura di fronte alla complessità delle questioni, fermo restando che l’architettura non può salvare il pianeta ma ha ampie responsabilità nei suoi confronti. Ed è la parola responsabilità che torna anche nelle parole del presidente della Biennale Paolo Baratta il quale, nel mostrare l’immagine-simbolo della mostra che sta già circolando su tutti i media – l’archeologa Maria Reiche, in uno scatto fotografico di Bruce Chatwin, che scruta l’orizzonte dall’alto di una scaletta di alluminio in mezzo a una landa desolata – si chiede cosa possa vedere questa donna oltre quel che ci è dato vedere dal terreno e di chi possa essere la responsabilità di ciò che potrà vedere, siano essi segni di riappacificazione e risarcimento o di ulteriore dissennatezza e distruzione.
Torna l’idea del suolo di “Common Ground”, questa volta con un’accezione terrena: il piano sul quale ci muoviamo è allo stesso tempo il luogo dove viviamo e agiamo, come individui e come collettività, ma anche il livello dal quale possiamo innalzare lo sguardo attraverso l’expanded eye evocato da Baratta. Si tratta di un terreno che sposta il tema della Biennale curata da Chipperfield, verso il significato del posare letteralmente i piedi sulla terra, prendendone le misure, ma anche verso quello collettivo e condiviso di ogni azione che riguardi la modificazione dell’ambiente abitato. Il punto di vista di Aravena è radicalmente pragmatico e in questo mette tutti di fronte all’orizzonte anche etico del nostro mestiere, ben oltre i fondamenti astutamente riportati a questioni semantiche o storico-enciclopediche nella Biennale di Koolhaas, che in qualche modo chiudeva un ciclo e costruiva le premesse per questa nuova Biennale.
Che si tratti del costruire, del rigenerare o del salvaguardare – perché in larga parte anche di questo si parla – la questione centrale è certamente il ruolo dell’architettura come creatrice ma anche portatrice di “bene pubblico”. E la posta in gioco è di conseguenza il definitivo superamento del ruolo decorativo degli architetti a fronte dell’effettiva efficacia rispetto alle questioni che riguardano tutti, in una riappacificazione, più volte richiamata da Baratta, tra il mondo civile e il mondo dell’architettura, in larga parte e da troppo tempo inutilmente arroccato su questioni irrilevanti.
In “La città circolare”, pubblicato nell’inserto Smart City allegato al n.996 di Domus, Roberto Masiero e Federico Della Puppa evocano il passaggio dalla concezione del nostro pianeta come terra di conquista, alla maniera delle praterie del Far West, verso quella di una navicella lanciata nello spazio, dove tutti gli individui che vi coabitano sono interdipendenti tra di loro e con l’ambiente circoscritto nel quale sono immersi, seppur proiettati verso un orizzonte lontano. È un’immagine che completa quella di Bruce Chatwin utilizzata come icona di “Reporting from the front” e mostra un altro possibile orizzonte oltre questa Biennale, augurandoci che l’urgenza delle questioni messe in campo non diventi l’ulteriore pretesto per spostare i problemi su un piano nel quale gli architetti tornino a essere ininfluenti, questa volta definitivamente.

In apertura: Elemental, vista aerea della Passeggiata Metropolitana a Santiago del Cile
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