L’occasione di creare una grande, nuova opera d’architettura e di spazio pubblico – il monumento migliore al coraggio umano e alla capacità di reagire di fronte a una perdita tremenda – era svanita
Dopo la caduta delle torri gemelle sorsero intorno al World Trade Center aspri dibattiti su come, o addirittura se, il sito dovesse essere ricostruito. Vi presero parte alcuni degli architetti più brillanti e creativi dei nostri tempi, spesso con specifiche proposte progettuali, ognuna delle quali – a usarla come punto di partenza – avrebbe ribaltato la tragedia in trionfo, trasformando radicalmente il sito del disastro in un nuovo genere di spazio urbano. Il progetto di massima scelto alla fine, quello di Daniel Libeskind, architetto di gran fama per i suoi progetti concettuali e per il Museo ebraico di Berlino, era la meno innovativa di tutte e la più facile per politici e immobiliaristi, che senza dubbio facevano conto sulla sua facile digeribilità. Consistendo in nulla più che in un normale gruppo di normali grattacieli, dominati dalla cosiddetta "Liberty Tower", o "grattacielo della Libertà", dell'altezza di quasi 550 metri, intendeva – in modi che non sono mai stati ben chiari – diventare il simbolo della capacità di reagire dell'America. Un memoriale della Dichiarazione d'indipendenza degli Stati Uniti dalla monarchia britannica del 4 luglio 1776 appare bizzarramente distante dagli attacchi di Al-Qaida, dalle loro ragioni e da ogni seria prospettiva di efficace risposta; ma all'epoca fu salutato da molti come un'idea brillante. Comunque anche l'insipida proposta di Libeskind fu poi dirottata da politici e immobiliaristi, che l'affidarono a David Childs dello studio Skidmore, Owens and Merrill (SOM), il quale provvide al suo ulteriore decadere nell'indifferenza convenzionale.
L'occasione di creare una grande, nuova opera d'architettura e di spazio pubblico – il monumento migliore al coraggio umano e alla capacità di reagire di fronte a una perdita tremenda – era svanita.
Si dice spesso che New York è il centro della cultura mondiale. La sola cultura di cui sia davvero il centro è quella del comprare e del vendere, e di qualcuno – di solito un'élite benestante – che in questo processo ci fa i soldi. A New York, come sempre di più dappertutto, la cultura del profitto è quella intorno alla quale ruotano tutte le altre subculture. Certo l'arte, la musica, la letteratura e la danza a New York fioriscono perché c'è la possibilità, in un modo o nell'altro, di "comprarle e venderle": producono denaro. Senza il quale la cultura della bellezza e dell'ispirazione semplicemente sparirebbe, per lo meno a quel che dicono. Quel che non dicono invece le aziende e i mecenati che ci assicurano che il capitalismo è il grande patrono dell'arte, è che si compra e si vende solo l'arte che si adegua alla corrente dominante. Certamente la corrente dominante tollera e perfino richiede un certo tasso di opere non allineate d'avanguardia che scuotono, criticano, provocano e attaccano i principi d'impresa, allo scopo di rivendicare una legittimazione in termini storici. E tuttavia ci sono limiti precisi a quel che si può fare e promuovere a scopo di lucro, e sono limiti molto stretti. Qualunque serio, non ironico riferimento al socialismo viene ignorato dal mercato. Così come qualunque serio appello a una vera rivoluzione, sotto l'ègida di qualunque ideologia. Così come qualunque seria rivendicazione di un futuro che non abbia al suo centro il capitalismo. L'elenco è lungo, ma poco discusso in pubblico; anche di questo si privano artisti e critici che da molto tempo hanno adottato una cauta autocensura per non essere considerati simpatizzanti dei terroristi o comunque non adatti al mercato.
Il messaggio lanciato da New York, al centro dell'attenzione del mondo in questo 11 settembre, è semplice: "Gli affari continuano".
[1] Grattacieli Unis di Sarajevo, 1992