Certamente regge il confronto quanto a diversità. Una sposa dell'Africa orientale procede accompagnata dalla sue damigelle vestite di viola tra bancarelle provvisorie che vendono di tutto, dalle scarpe usate alle pentole, dalle statuette della Madonna agli stereo, ai guantoni da boxe. Trattorie rumorose offrono dim sum cinese, injira eritrei e parecchia birra israeliana ed estera.
È il quartiere internazionale di Tel Aviv, ma non è ufficialmente riconosciuto, e neppure noto come tale. La stessa Israele non riconosce assolutamente l'aumento della popolazione dei rifugiati—oltre 30.000 sul territorio nazionale— né il lavoro degli immigrati con il permesso di lavoro scaduto, che sono più di 90.000.
Ottenere la cittadinanza legale e perfino la qualifica di rifugiato è pressoché impossibile. Su 856 richieste d'asilo presentate nel 2009, Israele ne ha accolte solo due. Per occuparsi dei lavoratori immigrati che superano il periodo di residenza ufficialmente consentito è stato costituito uno speciale reparto di polizia battezzato "Unità dell'Audacia". Le autorità trattano queste due categorie di popolazione con un'ostilità burocratica che le tiene separate dalla cittadinanza generale. E spesso oltrepassa la burocrazia e arriva all'incarcerazione e alla deportazione. Recentemente, Israele ha iniziato a deportare centinaia di bambini nati in questo territorio da membri di entrambi i gruppi.
L'architetto Yoav Meiri ha stabilito casa e studio in questo quartiere sedici anni fa e da allora ha attraversato alti e bassi. Durante un periodo di particolari difficoltà ha anche pensato di cambiare lavoro: "Mi sono chiesto che cosa mi sarebbe piaciuto fare e mi sono reso conto che avevo sempre desiderato fare il bibliotecario", racconta. "Riflettendoci mi sono reso conto che nel quartiere non ce n'erano. Non c'è una biblioteca, non c'è un centro sociale né un edificio pubblico vero e proprio. Qui ci sono delle persone, ma non un pubblico". Il sogno ha poi aperto la strada a un incremento del suo lavoro di architetto. I primi segni di trasformazione in quartiere borghese richiedevano parecchi progetti e Meiri si trovò doppiamente occupato. Giocava due partite, progettando palazzi d'appartamenti per i magnati immobiliari locali da un lato, e sosteneva iniziative sociali dall'altro, impegnandosi in Mesila, organizzazione di assistenza agli immigrati, e nel Consiglio di quartiere, associazione degli ebrei da tempo residenti nella zona.
Due scaffali d'acciaio sono stati collocati uno di fronte all'altro nello spazio che separa due basse strutture preesistenti: rifugi antiaerei previsti per proteggere la popolazione in caso d'attacco dall'aria. Uno degli scaffali è più alto e ospita i libri per gli adulti. L'altro è più basso e contiene i libri per i bambini. Quando la biblioteca è fuori servizio entrambi sono chiusi da solide serrande a palpebra. In orario d'apertura la palpebra della libreria degli adulti si solleva nello spazio tra gli scaffali, fornendo un pergolato ombroso. Fatto di barre d'acciaio che proteggono pannelli di vetro, la palpebra protesa in avanti riprende le tettoie a costolature dei celebri edifici cittadini ispirati al Bauhaus. La palpebra dello scaffale per i bambini si apre verso il terreno. Imbottita di cuscini dà ai giovani lettori modo di sedersi. In realtà la biblioteca esiste solo quando è aperta al pubblico e, anche se fa pienamente parte del parco, consente l'accesso a chiunque voglia attraversarla o visitarla. I libri sono stati donati grazie agli sforzi congiunti di librai, funzionari d'ambasciata, amici e abitanti del quartiere. La biblioteca possiede oltre 2.500 volumi in aramaico, arabo, bengalese, inglese, francese, ebraico, hindi, cinese mandarino, nepalese, rumeno, spagnolo, tagalog e thailandese. La sezione per i bambini ha in grande maggioranza titoli in ebraico. Per chi arriva dai guantoni da boxe e dagli abiti da sposa di via Neve Sha'anan la piccola biblioteca è uno spettacolo memorabile. Nel mezzo di un parco affollato, questo pomeriggio è frequentata da una quantità di bambini. Sono quasi tutti africani, indiani o comunque di origine straniera, e quasi tutti parlano tra loro in ebraico. I bambini sono sparsi sull'area interna del loro scaffale, giocano a scacchi e a dama, leggono e disegnano.
Nello studio di Meiri, a soli tre minuti di cammino dal trambusto della biblioteca, l'architetto tesse le lodi del parco come stupendo polo delle varie comunità e spiega lo scopo del progetto di favorirne la fusione sulla base delle loro forze dinamiche e della loro amplificazione. Gli chiedo se conosce dei precedenti alle varie innovazioni del progetto. Pur essendo convinto che cose del genere esistano anche altrove, Meiri non ricorda nessun'altra biblioteca all'aperto, né altre strutture che nascano solo in virtù della loro attività.
La scelta di una struttura all'aperto è in rapporto con la claustrofobia di cui questa comunità soffre? Dopo tutto gli si dà la caccia e spesso li si imprigiona.
In architettura i confini sono molto importanti: il confine tra esterno e interno, i confini fisici e quelli mentali. Abbiamo pensato che psicologicamente, se ci vogliamo rivolgere a un pubblico potenzialmente paranoico, a un pubblico attento alle guardie, alle porte che gli si chiudono alle spalle e a tutto ciò che ha a che fare con le istituzioni, il fatto che la biblioteca fosse essa stessa uno spazio pubblico sarebbe stato un modo di superare queste difficoltà. Abbiamo pensato che forse il nostro pubblico non avrebbe frequentato uno spazio chiuso per motivi politici e sociali.
E non vi siete preoccupati che finisse per diventare una vera biblioteca?
Una volta che si è compiuto un gesto inusuale, e questo è inusuale sotto molti aspetti, si dà per scontato di dover mettere insieme un programma inusuale di iniziative per quel posto, e il programma di iniziative di questo posto è davvero inusuale e molto dinamico. Ci sono manifestazioni che non sono tipiche di una biblioteca. Ci sono persone che vengono per prendere libri a prestito e ci sono ragazzi che stanno qui per passare il tempo, il che va benissimo. La libreria risponde a esigenze molto differenti ed è pensata per offrire questa adattabilità.
Uno degli aspetti importanti è proprio la durata temporale. Sembra una cosa effimera e certo è una struttura temporanea. Posso farle vedere delle foto di come sia stata portata sul sito con un camion, pronta all'uso, e scaricata con una gru. Abbiamo fatto dei buchi e l'abbiamo imbullonata al terreno. È una struttura mobile nel vero senso della parola. Posso sollevarla con tutti i libri e in un'ora lei non si accorgerebbe nemmeno che lì ci fosse mai stata una biblioteca.
Ma forse costruendo qualcosa che non fosse temporaneo avrebbe potuto formulare un'affermazione differente: che le persone non sono temporanee, che sono qui per restarci a lungo.
Considero la popolazione temporanea come una legittima parte della città. Certe zone sono in preda a forti dinamiche di ristrutturazione in senso borghese ed è possibile che questo quartiere internazionale, come lo chiama lei, si sposti di qui. La biblioteca si sposterà con esso. Nella situazione attuale può anche crescere. Attualmente stiamo pensando di usare uno spazio adiacente per creare un ampliamento. E poi anche l'effimero è un'affermazione: un'affermazione che riguarda queste aree così dinamiche in continuo cambiamento. Affermiamo che qui non c'è bisogno di aspettare che le cose siano scritte sulla pietra, per esempio come la posizione legale, per rispondere alle esigenze culturali. Dobbiamo agire in questa realtà estremamente fluida. Io non credo che considerare questo come un luogo stabile, o un luogo destinato a conservare caratteristiche fisse nel lungo periodo, significhi necessariamente essere ottimisti. Mi piace questo senso del cambiamento e la biblioteca probabilmente cambierà anch'essa.