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Micro-urbanistica e città ideale

A Venezia, nello spazio di un breve tragitto su un taxi-motoscafo, l’architetto cinese Yung Ho Chang, direttore del dipartimento di architettura del MIT di Boston, ha raccontato a Domus i suoi progetti recenti. Maurizio Bortolotti, che l’ha intervistato, gli ha chiesto del progetto per la città radiosa, al quale sta lavorando dalla Biennale di Shenzhen del 2005, del concetto di micro-urbanistica e del rapporto tra il suo lavoro e l’arte contemporanea.

di Maurizio Bortolotti

A Venezia, nello spazio di un breve tragitto su un taxi-motoscafo, l’architetto cinese Yung Ho Chang, direttore del dipartimento di architettura del MIT di Boston, ha raccontato a Domus i suoi progetti recenti. Maurizio Bortolotti, che l’ha intervistato, gli ha chiesto del progetto per la città radiosa, al quale sta lavorando dalla Biennale di Shenzhen del 2005, del concetto di micro-urbanistica e del rapporto tra il suo lavoro e l’arte contemporanea.

Maurizio Bortolotti: “La nuova città radiosa” è un progetto al quale stai lavorando dalla Biennale di Shenzhen del dicembre 2005, di cui sei stato il curatore. Shenzhen è la città cinese che è stata considerata “una città istantanea”. Partendo da questa definizione vorresti illustrarmi il progetto nel suo insieme?
Yung Ho Chang: Shenzhen è stata costruita molto velocemente (da qui la definizione di città istantanea) e può considerarsi riuscita solo fino a un certo punto. Questa città è un successo per quanto riguarda lo sviluppo economico, ma sembra soprattutto una “città spontanea”. La nuova “città radiosa” è una cittadina nata di recente, situata alla periferia di Shenzhen. Questo progetto sarà argomento di studio di una ricerca al tempo stesso ambiziosa e ottimista, che inizia ponendosi la domanda: “Come vorremmo che fosse davvero la vita in una città del ventunesimo secolo?”, oppure: “Come vorremmo che fosse la vita a Shenzhen tra 25 anni e con una popolazione di 7 milioni di abitanti?”. L’essenza della domanda riguarda il concetto di città ideale. Su questo argomento sto effettuando con altri due colleghi, Alexander D’Hooghe e Mark Jarzombek, uno studio al MIT in cui sono coinvolte anche la Tsinghua University e l’Università di Hong Kong. Tempo fa, il MIT e la Tsinghua University hanno creato l’Urbanization Laboratori, o più semplicemnte UrbLab, per avviare un lavoro di collaborazione.

MB: Un altro concetto presente nel tuo modo di fare architettura è la “micro-urbanistica”, intesa come modo di affrontare la città cinese contemporanea. Si tratta di un approccio per realizzare edifici, o di una strategia per rapportarsi con la complessità della città moderna?
YHC: Entrambe le cose: nel primo caso si è trattato dell’espressione dell’insieme di destinazioni d’uso e relazioni che si intrecciano nel progetto di un edificio, nel secondo, invece, suggerisce un progetto urbano che va dal piccolo al grande. La Hebei Education Publishing House è un esempio di “micro-urbanistica”. L’edificio ha un insieme di destinazioni d’uso estremamente ricco e variegato – uffici, centro espositivo e convention, hotel, ristorante, caffè, libreria, galleria d’arte, campo da basket... – e, proprio da qui, deriva la nostra fonte d’ispirazione, che ci ha portato a creare il progetto di una città in miniatura in cui si intrecciano dodici storie, articolate in vari mini-edifici, spazi urbani o giardini sospesi.

MB: Un elemento interessante nelle tue architetture è l’affinità con l’arte contemporanea. Hai lavorato spesso sia con artisti, sia all’interno di contesti artistici. Nell’arte l’approccio è più de-costruito che in architettura e in maggior corrispondenza con l’evento inserito nel suo contesto specifico. Perché l’arte è così importante nella tua opera?
YHC: Tutto ciò che creo è architettura: sia che si tratti di un edificio, sia che si tratti di un’installazione. Non sento la necessità di separare l’arte dall’architettura, anche perché è impossibile. Olafur Eliasson ha appena tenuto una lezione al MIT. Starà facendo arte o architettura? Forse non è così importante. Io credo di essere nella stessa posizione, solo che mi trovo dalla parte opposta.

MB: Nel corso dell’evento organizzato lo scorso settembre da Domus Academy alla Biennale di Venezia, hai mostrato alcune foto delle tue architetture alternate a immagini estratte da un film cinese di cassetta intitolato Infernal Affairs. Questa idea di creare un legame con il presente utilizzando il cinema sembra un modo per collegare l’architettura con il concetto temporale. Puoi spiegarmi di quale legame si tratta?
YHC: La nozione di contesto include tempo, spazio e avvenimento, cioè esperienza. Tempo significa movimento, quindi il tempo si esprime attraverso il cinema, anche se il mio cosiddetto film in realtà non è in movimento. Comunque, la scelta di presentare l’architettura nel contesto di un film di gangster ha a che fare con il confine labile che separa finzione e realtà.

MB: Pensi che la tua architettura sia più vicina e sensibile alla vita quotidiana di persone inserite in una città moderna o – se preferisci – in una megalopoli, dove il confine tra arte e architettura, realtà e finzione ha perso il suo significato?
YHC: Io penso che il tipo di architettura che realizzo può essere inserita sia nella città tradizionale, sia in quella moderna, perché si comporta come un tessuto elastico, per non dire un virus, che può estendersi e proliferare in ogni contesto esistente.

http://architecture.mit.edu

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L’eredità di Ada Bursi si trasforma in un progetto d’esame del biennio specialistico in Interior Design allo IED di Torino, in un racconto sull’abitare contemporaneo, tra ecologia, flessibilità spaziale e sensibilità sociale.

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