Hollein vs. Biennale. Biennale vs. Fuksas

Curatori-critici o curatori-architetti? Esposizioni come cataloghi tridimensionali o come installazioni? Padiglioni internazionali e/o temi trasversali? Hans Hollein e Massimiliano Fuksas, Direttori delle Biennali di architettura di Venezia del 1996 e del 2000, commentano l’Esposizione Internazionale in scena in questi giorni ai Giardini e all’Arsenale. Con un intervento di Armin Linke Per Domus: Rita Capezzuto, Hans Ulrich Obrist, Stefano Boeri Fotografia di Armin Linke.
 
Domus: Da un paio d’anni a questa parte nel mondo dell’arte si è affermata la figura dell’artista come curatore. All’ultima Biennale di Arti Visive di Venezia, diretta da Francesco Bonami, gli artisti Orozco e Tiravanija erano curatori di due sezioni. Al MUMOK di Vienna è in corso una straordinaria esposizione di gruppo, intitolata “The Uncanny”, che l’artista Mike Kelley ha direttamente curato. Invece, nel campo dell’architettura si è proceduto nella direzione opposta: le ultime due Biennali sono state curate da un giornalista e – quest’anno – da uno storico, mentre un tempo prevaleva l’idea che la Biennale dovesse essere diretta da un architetto. Hans Hollein, tu non solo sei stato direttore di una Biennale, ma anche curatore di numerose mostre. Ci puoi parlare del ruolo che la curatela ha nella tua attività professionale?

Hans Hollein: Siamo in un’epoca di ibridazioni, che ci porta a non essere inchiodati alla nostra identità di architetto, di curatore, di ricercatore, di storico, di pittore o scultore. Oggi viviamo in un mondo dove possiamo circolare tra campi un tempo molto chiusi, le frontiere sono state cancellate ed è un’evoluzione molto importante. Nel mio caso particolare, fin dagli inizi non mi occupavo solo di architettura, ma anche di arte, sviluppando ricerche come quelle su Schindler, o sui Pueblos. Ma non ho mai avuto intenzione di diventare storico dell’arte. Ho iniziato con una piccola mostra a Vienna, e ho poi proseguito con la Triennale di Milano del ’68, dove ho ideato la sezione “Austriennale”: fu il mio primo contatto con una mostra non dal punto di vista del progettista ma da quello della concezione globale dell’installazione. Non volevo progettare un’esposizione, ma avere una responsabilità complessiva: sul messaggio, sulle idee, sulla ricerca, e, ovviamente, sul progetto d’allestimento. Penso che il genere di messaggio che si può trasmettere con una mostra sia diverso da quello che si può esprimere con una pubblicazione.

Massimiliano Fuksas: Sono assolutamente d’accordo con Hans Hollein: una volta era molto facile ricoprire un ruolo complessivo, integrale. Per esempio, nell’epoca barocca c’erano architetti che allo stesso tempo erano artisti e scultori, e talvolta anche scrittori o documentaristi. Ma oggi viviamo in un’epoca diversa. All’inizio del secolo nella nostra professione si confrontavano due figure: l’architetto e il committente. Oggi non hai un committente ma dei project manager, poi dei consulenti per l’illuminazione, per l’idraulica, la tecnologia domestica. Metti insieme cento persone per realizzare un progetto e non hai più un committente. Oggi è normale che in una mostra ci siano un curatore generale e poi altre persone che fanno i curatori solo di alcune parti – per esempio, allestiscono gli spazi. È un modello complicato, che in realtà non funziona. L’analogia tra le mie mostre e quelle di Hans era che noi invece ci occupavamo entrambi non solo della concezione ma anche dell’organizzazione delle esposizioni.

Domus: Per la Biennale del 2000 avevi portato con te una squadra di collaboratori?

Massimiliano Fuksas: Sì, questo l’abbiamo fatto tutti e due. Abbiamo prodotto i disegni dello spazio espositivo, fino ai particolari: tutto aveva un suo equilibrio. Non c’era da un lato un’idea nostra, e dall’altro una persona che ti chiedeva se volevi mettere un oggetto in un determinato posto. Le due Biennali successive alla mia sono state invece caratterizzate da un altro modello, più o meno dettato dal fatto che qualcuno ha usato elementi altrui per fare cose ancora differenti. Io credo invece che le esposizioni non possano essere solo collezioni di opere, anche perché oggi c’è una proliferazione di riviste, libri, siti web e così via. Quando si costruisce una mostra, bisogna dire qualcosa di nuovo, sostenere un’ipotesi chiara. Perché oggi è ancora importante fare delle mostre? Perché si può dire che cosa accade oggi, mostrare dove sta il conflitto. In fondo, una mostra è un’installazione: non può essere altro. E non puoi delegarla perché è la tua installazione.

Hans Hollein: Questo è un punto molto importante: penso che un’esposizione non possa essere solamente la versione tridimensionale dell’articolo di una rivista o di un libro. È l’impostazione concettuale che ha adottato anche Massimiliano: si prende uno straordinario elenco di oggetti, e allo stesso tempo si dichiara che cosa si sta facendo e perché. È interessante che anche il mondo dell’arte abbia compreso che questo è un approccio migliore rispetto allo scenario in cui c’erano solo i curatori che si occupavano delle mostre, con i progettisti che fungevano solo da esperti per le tecniche espositive.

Domus: In certo qual modo, voi avete programmato anche un certo ritmo percettivo per i visitatori delle vostre esposizioni. Avete progettato l’esperienza del pubblico, non semplicemente appeso immagini al muro, o collocato dei modelli sui piedistalli.

Hans Hollein: Certo, del resto sappiamo bene che il contenitore è già in sé un contenuto!

Domus: L’artista francese Dominique Gonzalez- Foerster ha detto che una mostra deve essere un’esperienza forte. Potete parlarci dell’esperienza dello spazio espositivo e di come la intendete?

Massimiliano Fuksas: “Sensori del futuro - L’architetto come sismografo” di Hans Hollein era una mostra in cui si iniziava a vedere una creazione di architettura anche al di fuori del campo canonico dell’architettura, che rimaneva al centro dell’attenzione. Nella mia Biennale ho messo in atto un approccio identico, ma simmetrico: ho scelto un gruppo di architetti e ho osservato che cosa succedeva prima al di fuori, poi dentro l’architettura.

Domus: È come se le vostre due Biennali avessero compiuto una sorta di doppio movimento…

Massimiliano Fuksas: Se si confrontano le due mostre, si può notare come entrambe cercassero di interrogarsi sul senso del fare architettura, ma anche su che cosa succedeva al di fuori di essa. Noi non volevamo soltanto mostrare opere e progetti, ma sostenevamo l’ipotesi che stesse succedendo qualcosa di veramente spettacolare. Una mostra non è affatto una cosa necessaria: la si fa, perché si cerca di elaborare una sintesi concettuale di quello che si pensa possa accadere nel giro di pochi anni, e sul modo in cui il mondo dell’arte e quello dell’architettura possono offrire una risposta; perché l’arte è utile, non è solo un fatto estetico. L’architettura e l’arte aiutano la gente.

Domus: La mostra come uno strumento di conoscenza?

Massimiliano Fuksas: Sì, in certo qual senso è proprio così.

Domus: La Strada Novissima ideata per la Biennale del 1980 da Paolo Portoghesi può forse essere considerata come un vero e proprio modello – anzi una sorta di anticipazione – della vostra idea: quella di usare uno spazio che non sia la traduzione tridimensionale di una rivista, ma un dispositivo che si abita, grazie al quale il visitatore si cala davvero, con il proprio corpo e i propri sensi, in un mondo, in un paesaggio non solo fisico, ma anche mentale.

Hans Hollein: Penso sia importante che mostre come la Biennale siano fatte per il pubblico, e per un pubblico numeroso. Non si fa una mostra di pittura solo per i pittori o una mostra d’architettura solo per gli architetti: si fanno per un pubblico più vasto, interessato e curioso; per questo occorre tradurre per tutti cose che devono essere comprese da angolazioni conoscitive ed esperienze formative differenti. Tra i visitatori c’è chi può non intendersi affatto d’architettura, ma che, vedendo e immergendosi in una mostra così, ha finalmente una reazione, produce una risposta.

Massimiliano Fuksas: Una esposizione deve diventare parte della tua memoria, devi ricordarla. Ci sono molti gradi e possibilità di comprenderla: prima la si percorre, poi si vede qualcosa, la si memorizza e infine la si usa per fare qualcosa d’altro. In una mostra devi trovare tutti questi livelli differenti e giocarci. Credo che oggi abbiamo ancora molto bisogno di esposizioni di questo tipo, e non sono sicuro che si debba eliminare il concetto di grande mostra.

Domus: Un tempo la grande mostra era molto importante per l’informazione che faceva circolare. Per esempio, Documenta e la Biennale d’Arte avevano la funzione di far circolare l’informazione su ciò che accadeva nel mondo. Ma ora non è più necessario, visto che tutti viaggiano e ci sono decine di riviste che aggiornano il pubblico. Deve entrare in gioco qualcosa di più dell’informazione.

Massimiliano Fuksas: È in corso a Roma, all’interno del Colosseo, la mostra “Forma, la città moderna e il suo passato”, per la quale io e il mio studio ci siamo occupati di tutto: dell’ideazione, del progetto, della realizzazione. In luglio abbiamo avuto 370.000 visitatori, in agosto 380.000. Credo che il successo sia stato determinato non tanto dal tema, quanto dal coinvolgimento del pubblico a differenti livelli. È stato un lavoro spaventoso, faticosissimo. Per me è molto più semplice mettere in piedi un edificio che una mostra.

Hans Hollein: Sono d’accordo. Preparare un’esposizione è più faticoso che fare un grattacielo! Se infatti ci si limita a suddividere e delegare tutti i compiti, è difficile ottenere un’atmosfera compatta, convincente. Ma se – pur con grandi difficoltà – intrecci tutto quanto, produci un’esperienza più avanzata e innovativa. A proposito delle reazioni del pubblico: nel 1984 ho preparato una mostra a Vienna dal titolo “Sogno e realtà 1870-1930”. C’era una sezione in cui dovevo illustrare la Prima guerra mondiale e cosi’ho pensato di esporre l’uniforme macchiata di sangue dell’arciduca Francesco Ferdinando, quando gli spararono a Sarajevo, e accanto ho messo un ritratto dell’imperatrice. Volevo trattare il tema del conflitto tra sistemi, generazioni e nazioni. In una mostra, bisogna anche avere oggetti che raccontano una grande storia in un guscio di noce. Il pubblico era stato numerosissimo.

Domus: Quindi i pezzi esposti sono molto di più che dei semplici oggetti?

Hans Hollein: Sono piuttosto icone, o comunque elementi iconici.

Domus: Alla Biennale tutto questo avviene in uno spazio incredibilmente grande, in particolare perché lo spazio espositivo dell’Arsenale è continuamente cresciuto durante le ultime edizioni. Potreste dirci come avete affrontato, nelle vostre rispettive Biennali, questa esperienza e come la Biennale sia stata più di una semplice accumulazione di oggetti?

Hans Hollein: Per la Biennale che ha preceduto quella di Fuksas, non avevamo né molto denaro né molto tempo. Così, dopo alcune riflessioni, abbiamo deciso di concentrarci solo sui Giardini e sul Padiglione Italia. L’Arsenale non era ancora disponibile, a quei tempi si stava ancora trattando con la Marina militare. Credo che la novità consista nel fatto che l’Arsenale ha un grande potenziale: si può costruire una sorta di dialettica tra i Giardini e l’Arsenale.

Domus: Nelle ultime due Biennali, rispetto a quelle precedenti, i padiglioni internazionali sembrano avere una marcia in più, nonostante la loro composizione appartenga a una visione geopolitica di quasi un secolo fa. È come se la ricerca, la sperimentazione si fossero spostate dal padiglione Italia, dall’Arsenale (usati soprattutto come spazi compilativi, di catalogazione di opere note), ai padiglioni internazionali.

Massimiliano Fuksas: Credo che il motivo stia nel fatto che ci sono molti Paesi in profonda trasformazione, che stanno cambiando politica e mentalità. E i padiglioni nazionali – come quello giapponese o quello americano – mettono in scena questo processo di cambiamento. Si va dalla glorificazione di un Paese a un’installazione su ciò che si pensa riguardo a un argomento specifico. Il padiglione britannico di Peter Cook è per esempio molto interessante perché, da architetto, Cook opera come un curatore che seleziona e valuta le cose che a lui sembrano importanti, anche se non sono vicine alla linea di Archigram.

Hans Hollein: Sì. Questa è una buona risposta alla domanda se un architetto debba fare il curatore di una mostra, perché Peter Cook, pur non essendo del tutto in sintonia con gli architetti e gli oggetti esposti, ne sa cogliere le qualità. La sua linea seleziona la qualità da un punto di vista intellettuale molto alto. Ciò rende la cosa ancora più importante, perché se Peter Cook sceglie di esporre qualcosa di monumentale, subito questa monumentalità – nel contesto della mostra curata da lui – acquista un tono diverso, perché Peter è un architetto con il suo personale, nettissimo punto di vista.

Massimiliano Fuksas: Uno storico, o un critico d’architettura, tende a organizzare un’esposizione per schemi. Ha uno schema di tre, quattro, cinque categorie e ci inscatola le opere e gli autori. Per esempio, nella Biennale che si è appena inaugurata la categoria “Atmosfera” è stupefacente nella sua vaghezza… ricorda una canzone di Lucio Battisti degli anni Settanta e all’orecchio di noi italiani suona un po’ volgare.

Domus: Che opinione avete della Biennale in corso? Quali riflessioni vi stimola?

Massimiliano Fuksas: È molto difficile. Ho incontrato Watanabe che mi ha detto: “Io ci sono, ma non so in che reparto del supermercato sia il mio progetto”. Watanabe è giapponese, ma ha un senso dello humour molto britannico. Il fatto è che ci sono tanti progetti i cui materiali sono sparsi nelle sale dell’Arsenale: c’è il plastico di un progetto e, a cinquanta metri di distanza, ci sono i disegni dello stesso progetto. Poi, in un altro spazio ancora, c’è il video… È una soluzione che suscita perplessità.

Domus: Armin Linke, tu sei stato presente sia alla Biennale curata da Massimiliano Fuksas che alla Biennale attuale – dove hai ricevuto un premio: cosa pensi di questo confronto?

Armin Linke: Ho avuto molta fortuna: in questa edizione mi è stato riservato un posto bellissimo, all’ingresso del padiglione Italia. Tuttavia, la sensazione è che ci sia molta offerta di opere e progetti, forse troppa. Non so se sia colpa dell’architetto o del curatore, ma ci vorrebbe un modo nuovo di esporre l’opera, per rappresentarla in modo che il pubblico possa interagire con essa. Per esempio, occorrerebbe riflettere se semplicemente esporre l’architettura o invece mostrare come l’architettura funziona, cercare un nuovo linguaggio per esporre l’architettura. In questa Biennale ho rilevato un problema di visibilità: è difficile leggere i progetti presentati, a meno che uno non sia un esperto.

Domus: Hans Hollein, che cosa pensi della Biennale di quest’anno?

Hans Hollein: Penso che in questa Biennale si veda la separazione tra lo storico, il designer e l’architetto. All’Arsenale lo spazio è gestito molto bene. Conosco bene questo spazio e ricordo le diverse modalità di allestimento delle precedenti Biennali di architettura e arte; mi sembra che l’idea di allestimento, proprio in quanto allestimento, funzioni, che abbia avuto successo. Ma questo spazio è stato rimpinzato come un baule, in cui c’è di tutto. Non si riesce a distinguere le opere e gli autori. Non si riesce a capire quando le cose sono state realizzate, se sono state realizzate, oppure sono solo progetti. Naturalmente si potrebbe dire: questo è ciò che si dovrebbe costruire nel prossimo futuro. Ma la Biennale non è una mostra solo per architetti, è una mostra che si vuol far visitare a centinaia di migliaia di persone. E il problema è che i criteri di scelta dei progetti non vengono granché alla luce. Alla base di tutto c’è ancora una volta la questione del modo in cui un curatore è coinvolto: come architetto, come direttore, come storico, come critico… A seconda del tuo ruolo vedi automaticamente le cose da un’angolazione differente, hai bisogno di consulenze diverse. Se lo fai da architetto, agisci come Peter Cook nel padiglione britannico: selezioni e allestisci uno spazio sulla base di criteri chiari e forti. Per questa ragione credo che i padiglioni nazionali diventino più interessanti e ambiziosi.

Domus: Anche l’ultima Biennale d’arte si muoveva nella stessa direzione: c’erano cinque o sei padiglioni molto promettenti, mentre nell’edizione di tre anni fa tutto era meno interessante. Quali sono state le tue esperienze con il padiglione austriaco?

Hans Hollein: Ho sperimentato molte sfaccettature nel modo di affrontare la Biennale. La prima nel 1972, quando esponevo come artista. Poi sono stato curatore dei padiglioni austriaci per diversi anni per la Biennale d’arti figurative, e poi per la Biennale d’architettura, e infine ne sono diventato direttore. Quando ero direttore della Biennale d’architettura ho cercato seriamente di convincere i vari commissari che non dovevano darsi tutti lo stesso tema, ma piuttosto la stessa impostazione mentale. In questo modo si può evitare di fare una mostra autobiografica o una mostra patriottica sul proprio Paese. Io, per esempio, nel 2000 ho fatto una mostra di edifici non austriaci costruiti in Austria.

Domus: Ci ricordiamo di un filmato del 1972 in cui tu apparivi su un’imbarcazione, a Venezia.

Hans Hollein: Sì, era la mia installazione. Ero su una zattera, seduto su una sedia.
Da sinistra: Hans Hollein e Massimiliano Fuksas
Da sinistra: Hans Hollein e Massimiliano Fuksas
Hans Hollein e Massimiliano Fuksas
Hans Hollein e Massimiliano Fuksas
Hans Hollein
Hans Hollein
Massimiliano Fuksas
Massimiliano Fuksas
Da sinistra: Stefano Boeri, Hans Hollein e Massimiliano Fuksas
Da sinistra: Stefano Boeri, Hans Hollein e Massimiliano Fuksas

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