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Un’architettura che danza

Nonostante le restrizioni di budget e la localizzazione periferica, il nuovo Laban Dance Centre di Herzog & de Meuron è un’architettura di straordinaria forza. Testo di Giles Reid. Fotografia di Armin Linke.

Da quando è stata inaugurata la Tate Modern di Herzog e de Meuron, si guarda alla nuova architettura di Londra in modo molto diverso. Lontano il tempo in cui erano i gusti del principe di Galles a stabilire i confini fra ciò che era ammissibile e ciò che non lo era: la città si è aperta come non mai al pensiero architettonico contemporaneo. Per i cinici, per chi è poco propenso a credere alle ragioni ideali, questo cambiamento di posizioni è dovuto a un motivo molto concreto: l’influenza quasi magica che le architetture fuori dell’ordinario sembrano avere sulla valorizzazione dei terreni in aree urbane fino a poco tempo prima considerate povere e poco appetibili. C’è l’esempio di Deptford, un quartiere industriale di periferia che è sempre stato brutto, fin dai tempi in cui, nel XVI secolo, vi si installò la Reale Marina Britannica, e di cui si diceva fino a poco fa che era il cuore desolato della già desolata area ex industriale di South East. Oggi Deptford viene presentato come il prossimo obiettivo di una iniziativa di trasformazione in quartiere residenziale borghese.

Il segno più evidente del cambiamento non è il miglioramento del sistema dei trasporti, che attualmente collega Deptford, sulla riva ‘sbagliata’ del Tamigi, alle torri di uffici di Canary Wharf, a nord; e neppure le gru che si stagliano nel cielo, e che per ora non sono molto numerose. Il vero segno del cambiamento nelle prospettive di Deptford è rappresentato da un edificio nuovissimo: il Laban Centre di Herzog & de Meuron, il più grande laboratorio di danza moderna d’Inghilterra.

Prima della crisi finanziaria del Guggenheim, era diffusa la convinzione che il Laban potesse fare per Deptford ciò che il Guggenheim di Gehry ha fatto per Bilbao, o che la Tate Modern sta facendo per Southwark: un’idea piuttosto superficiale che male si concilia con lo scetticismo di Jacques Herzog a proposito dell’effetto Bilbao, della riduzione dell’architettura da manufatto di valore civico a puro spettacolo.

Più che considerare il Laban come un brillante elemento di rottura con ciò che lo circonda, gli architetti si sono chiesti se esso potesse offrire un legame più complesso e più vario con il suo contesto. Quando si percorre in macchina la grande strada che porta verso il nuovo edificio, la prima impressione può essere poco invitante: sembra un altro capannone industriale, un po’ più grande e un po’ più nuovo, forse, ma non molto diverso da tutti gli altri. Presenta poche aperture, e quelle che si trovano al piano terreno sembrano le porte di un magazzino: ma, via via che ci si avvicina, appare chiaro invece che si tratta di qualcosa di più interessante del solito capannone. Le pareti dell’edificio hanno una sofisticata linea curva, i colori sfumati – verde-giallo, magenta e turchese – brillano discretamente al sole, il rivestimento è traslucido e a strati.

La ‘pelle’ esterna, fatta di fogli di policarbonato, è tenuta staccata dall’edificio (struttura di cemento armato, pareti di mattoni, vetrate trasparenti) da un’intercapedine di isolamento acustico e termico, con sfiatatoi in alto e in basso. Nelle stanze retrostanti ci sono porte che permettono di far entrare o uscire il calore. Herzog e de Meuron hanno così reinterpretato l’idea del sistema di rivestimento “a doppia pelle” per creare una soluzione relativamente poco costosa, pratica e anche molto valida esteticamente.

Finora questi sistemi si erano tradotti in curtain wall ad alta tecnologia: prefabbricati, interamente di vetro, tecnologicamente sofisticati, di produzione non razionalizzata e molto costosi. Fin dagli anni Ottanta, Herzog e de Meuron hanno invece lavorato per realizzare rivestimenti leggeri con costi relativamente contenuti: dimostrando che le idee più avanzate in materia di ambiente possono essere messe a frutto con risultati poetici ed espressivi, senza bisogno di impuntarsi troppo sui dettagli. Fra i primi risultati di questo loro sforzo si possono citare il rivestimento dell’edificio per appartamenti e uffici Suva (1988) e la Chiesa greca ortodossa (1989, ora demolita).

Ai progettisti ancora alla ricerca del Santo Graal, ovvero di un’architettura tutta di vetro, la “doppia pelle” consente di evitare il ricorso a vetri sfumati o colorati per ottenere le necessarie prestazioni di isolamento termico. Curiosamente, nel Laban tutte le finestre che si aprono nel foglio di policarbonato sono di vetro a specchio: una scelta che inevitabilmente ricorda la sede di Willis Faber & Dumas di Norman Foster a Ipswich (1975).

Durante il giorno queste finestre impediscono a chi passa per la strada di vedere quello che succede all’interno dell’edificio, e al tempo stesso mettono l’interno al riparo da un contesto non proprio felice. Tuttavia la luce che filtra attraverso il foglio di policarbonato conferisce alle pareti di vetro degli studi di danza un fondo colorato che cambia continuamente. Di notte, le vetrate illuminate da dietro diventano trasparenti, e la luce fa il percorso contrario: passa attraverso le pareti traslucide degli studi e proietta le ombre in movimento dei danzatori sul foglio di policarbonato, come sequenze filmate al rallentatore.
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Il rivestimento crea un effetto specchio a doppio senso. Riflette ed è riflesso, in un “gioco di potere” provocatorio, ambiguo e mutevole fra spettatore e spettacolo, a seconda del lato dello ‘specchio’ in cui ci si trova. Il Laban è allora una macchina che sembra fatta per osservare il movimento, per un piacere voyeuristico, per accrescere e intensificare la consapevolezza di essere guardati, per diventare protagonisti e attori in uno spazio sociale, e magari anche danzatori.

In modo più o meno consapevole, queste idee si riallacciano a certi temi cari all’artista concettuale americano Dan Graham. Nei progetti di Graham per padiglioni di specchio “a doppio senso”, il box minimalista (pietra di paragone fra trasparenza letterale e trasparenza interpretativa) si trasforma, e da ideale modernista generico e indefinito passa ad ancorarsi a un contesto specifico.

La specificità del Laban è quella di flirtare e rivelare qualche parte di sé per un momento per poi sottrarsi allo sguardo nel momento successivo, di dialogare con il contesto per poi ritrarsene. In questo senso esso è davvero in antitesi con il Guggenheim di Bilbao. Naturalmente Herzog e de Meuron hanno avuto frequenti contatti e hanno lavorato spesso con artisti minimalisti e concettuali, e li hanno in eguale misura ignorati e/o incoraggiati. Al Laban hanno lavorato insieme a Michael Craig-Martin, che al Goldsmiths College è stato insegnante dei Young British Artist: Damien Hirst, Gary Hume e Sarah Lucas.

I colori pop tipici di Craig-Martin continuano all’interno dell’edificio, solo che invece di sfumarsi si accendono e diventano acidi, e scivolano sulle facciate interne. Questi colori identificano le diverse “strade” interne dell’edificio, che salgono e scendono e variano di larghezza, come se gli architetti avessero pensato a vere e proprie strade di paese, oppure a un insieme di High Street labirintiche e affollate. Alle ‘strade’ si alternano pozzi di luce che penetrano in profondità.

In questo senso, il Laban paradossalmente sembra voler ricordare e celebrare quel tipo di comunità urbana fitta e compressa che i developer dei nuovi complessi residenziali di Deptford affermano di voler debellare. L’interesse per le strutture di questo tipo come punti di partenza per la progettazione si può ricondurre ad Aldo Rossi, che fu insegnante di Herzog e de Meuron al Politecnico di Zurigo: ma gli accenni rapidi ed eleganti, le abili allusioni e le ironiche divagazioni rispetto all’architettura contemporanea, nonché la libertà delle piante rispetto al rivestimento che funge da confine del ‘paese’, danno alla composizione il senso della lezione appresa dalla Collage City di Fred Koetter e Colin Rowe (1978).

Gli spazi di uso pubblico, come il caffè e la biblioteca, sono situati vicino all’ingresso. Il caffè si affaccia sulle sponde fangose di Deptford Creek: peccato che agli architetti non sia stato consentito di costruire direttamente sul ruscello perché questo avrebbe rafforzato il rapporto dell’edificio con l’acqua. All’ingresso si colgono subito i due schemi di circolazione scelti per il complesso: un percorso a rampa e una scala a spirale. Il riferimento alla Villa Savoye di Le Corbusier (1929) è evidente: ma la bianca scala a spirale di Villa Savoye qui è trattata con bocciardatura sul retro.

Si mette a fuoco così il tema dell’interno: un modernismo garbato e colorato, contro il brutalismo del cemento a vista. Se Herzog e de Meuron hanno guardato a Le Corbusier, si tratta del tardo Le Corbusier del Padiglione del Brasile (1959) più che del purista delle prime opere. A metà della rampa, un cortile chiuso da vetri e specchi irrompe dal soffitto, un pluviale che all’apparenza fa da precario supporto strutturale. A destra c’è la biblioteca. Le scaffalature e i nastri trasportatori sono posti su un’alta gradonata che ricorda molto la Kunsthal di Rotterdam progettata da Rem Koolhaas (1992).

La struttura non è quella di un supercapannone con grandi porte, come si sarebbe portati a pensare guardandola dall’esterno, ma quella di una grande casa su telaio portante di cemento armato. La struttura non si sovrappone all’edificio con una griglia regolare che fa storia a sé: la comparsa di una colonna o di una trave dipende dalle caratteristiche dei diversi ambienti. Di nuovo vengono in mente le soluzioni studiate da Koolhaas insieme all’ingegnere Cecil Balmond per la Kunsthal di Rotterdam.

Gli architetti hanno nascosto la torre scenica del teatro sotto il culmine del tetto. In questo modo deliberatamente minimizzano il potenziale simbolico della torre, evitando di usarla per segnalare da lontano la presenza dell’edificio. Questa scelta significa anche che la natura del tetto non si può cogliere dall’esterno. La struttura è formata da un complesso insieme di elementi con costoloni e nervature, ciascuno dei quali conferisce allo spazio sottostante un carattere unico: non si tratta certo di un soffitto appeso lasciato a vista. Al centro della pianta è situato un teatro di 300 posti, il Bonnie Bird Theatre. A differenza delle ‘strade’ circostanti, il teatro è tutto rivestito in legno di betulla, sabbiato per metterne in evidenza la grana e colorato di nero. Gli architetti lo definiscono un “fienile shakespeariano”: un capannone dentro il capannone.

Gli studi destinati alle lezioni di danza sono collocati soprattutto al piano superiore. Ogni studio è illuminato su un lato dalla luce che penetra attraverso la “doppia pelle”, mentre sugli altri lati le pareti sono di specchi a tutta altezza, interrotti soltanto qua e là da aperture che permettono di vedere i danzatori in movimento. L’effetto specchio della facciata si raddoppia in questi spazi interni. Agli studi si accede attraverso ‘strade’ a forma di cuneo, anziché dai soliti lunghi e prevedibili corridoi con porte sui due lati. La loro forma piacevole ne fa luoghi di incontro e di sosta: un’idea che suona sempre bene ma che non sempre funziona veramente. Qui, invece, le ‘strade’ sono piene di studenti che si fermano a parlare, che si appartano un momento fra una lezione e l’altra, o che leggono nelle bacheche gli annunci di alloggi da condividere o di spettacoli imminenti.

Una grande vetrata, che generalmente sfocia su una bella veduta dell’esterno, conclude ogni ‘strada’. Guardando indietro verso la High Street di Deptford, per esempio, si può vedere la splendida (anche se assai fatiscente) chiesa barocca di Saint Paul (1730) dell’architetto Thomas Archer. Da un’altra vetrata si scorgono gli alberi del celeberrimo veliero del XVIII secolo ancorato a Greenwich, il Cutty Sark.

All’esterno si cominciano a vedere i risultati dell’intervento paesaggistico, affidato allo studio Vogt Landschaftsarchitekten di Zurigo: per il momento il terreno, dopo essere stato decontaminato e risanato, è stato modellato in forma di gradoni regolari, che fanno pensare all’intenzione di creare degli spazi ad anfiteatro che si staglino contro le linee curve dell’edificio. Come molti altri elementi del Laban, anche il paesaggio nasce in parte da necessità economiche. Invece di pagare per il trasporto del terreno inquinato in un’apposita discarica, i progettisti l’hanno riciclato in loco, risparmiando così del denaro da impiegare per altri scopi più interessanti.

Il Laban trabocca di idee: in materia di arte, di struttura, di contesto, di ambiente fisico e sociale. Si sente che tanto i progettisti quanto i committenti e i fruitori attribuiscono grande valore a questa realizzazione, e che il piacere che l’edificio può dare è legato essenzialmente alla sua capacità di misurarsi con la presenza e l’attività degli studenti e degli insegnanti. Tutto il centro, con il suo direttore Marion North, è perfettamente consapevole di quanto sia importante per il suo futuro, al di là del battage giornalistico dei primi giorni, guadagnarsi la solidarietà e il sostegno della comunità in cui è inserito.

La Tate Modern di Herzog e de Meuron è stata tanto descritta, esaltata e strombazzata dalla stampa inglese che alla fine la realtà non poteva che apparire inferiore alle aspettative. Al Laban, invece, l’illuminazione, i collegamenti con l’esterno, le dimensioni e i percorsi attraverso i vari spazi sono gestiti con abilità, sicurezza e audacia: finalmente il pubblico inglese ha modo di capire il perché di tutto l’agitarsi a proposito di Herzog e de Meuron. E Deptford è come se avesse guadagnato un cuore nuovo, pieno di vita.
La rampa converte l’atrio d’ingresso in un grande spazio pubblico, dove studenti e spettatori si riuniscono per le performance nel teatro
La rampa converte l’atrio d’ingresso in un grande spazio pubblico, dove studenti e spettatori si riuniscono per le performance nel teatro
Il Laban Centre di Herzog & de Meuron, il più grande laboratorio di danza moderna d’Inghilterra, è il vero segno del cambiamento nelle prospettive di Deptford
Il Laban Centre di Herzog & de Meuron, il più grande laboratorio di danza moderna d’Inghilterra, è il vero segno del cambiamento nelle prospettive di Deptford
Il Laban Centre è incuneato in un’ansa fangosa del Tamigi
Il Laban Centre è incuneato in un’ansa fangosa del Tamigi
La circolazione interna è stata risolta con un percorso a rampa, ben celato nel box esterno poco appariscente
La circolazione interna è stata risolta con un percorso a rampa, ben celato nel box esterno poco appariscente
La biblioteca si trova sopra alla caffetteria
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Le diverse attività ospitate nel Laban Centre si intersecano nei due piani dell’edificio
Le diverse attività ospitate nel Laban Centre si intersecano nei due piani dell’edificio
Il semplice capannone – come il complesso può apparire a distanza – diventa a una lettura ravvicinata un’opera dalle raffinate soluzioni architettoniche
Il semplice capannone – come il complesso può apparire a distanza – diventa a una lettura ravvicinata un’opera dalle raffinate soluzioni architettoniche
Herzog & de Meuron hanno saputo attribuire forza estetica anche a un materiale povero come il cemento, scelto in ragione del budget limitato
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. I colori pop tipici di Craig-Martin continuano all’interno dell’edificio, solo che invece di sfumarsi si accendono e diventano acidi, e scivolano sulle facciate interne
. I colori pop tipici di Craig-Martin continuano all’interno dell’edificio, solo che invece di sfumarsi si accendono e diventano acidi, e scivolano sulle facciate interne
Pannelli opachi proteggono la privacy dei ballerini, che hanno però la possibilità di guardare verso l’esterno
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Gli studi di danza si trovano per la maggior parte al piano superiore. Ognuno di essi è caratterizzato da dimensioni, forme e colori differenti
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