Fotografia di Peter Cook
Manchester è una città grande e ottimista, che però stranamente non ha forma né disegno. Qui Engels studiò le condizioni di vita del primo proletariato industriale del mondo – la classe operaia inglese – createsi per l’esplosiva crescita della città, che si trasformò da piccolo centro a metropoli industriale nell’arco di una sola generazione. Manchester ha sofferto il declino che ha colpito tante città di questo tipo, con il crollo dell’industria manifatturiera nell’Europa Occidentale.
Come se tutta la città fosse condannata a perpetuare i suoi difetti, oggi questa mancanza di forma viene fedelmente riprodotta nelle iniziative che si stanno portando avanti per riempire il vuoto lasciato dal passato industriale ormai finito. I grandi progetti di rinnovamento urbano si presentano come brani isolati di architettura più o meno pregevole, perduti in un mare di robaccia.
L’area di Salford Quays è esemplare da questo punto di vista. Era il porto interno di Manchester, il terminal del canale che lo collegava al mare, da cui i manufatti prodotti nella città venivano spediti in tutto il mondo. In meno di cinque anni quest’area si è trasformata da un ‘nulla’ abbandonato e vuoto a un ‘nulla’ attivo e indaffarato. Ha acquisito una linea tranviaria – il tram è una forma di trasporto urbano che l’Inghilterra sta riscoprendo con entusiasmo –, può vantare le coloratissime sale da concerto del Lowry Centre di Michael Wilford, e ora anche l’Imperial War Museum North di Daniel Libeskind, emanazione dell’omonima istituzione londinese. Si tratta di realizzazioni importanti, che tuttavia hanno portato alcune inaspettate conseguenze negative. Hanno fatto salire i prezzi dei terreni, tanto da incoraggiare le iniziative commerciali private, ma non abbastanza da arrivare a uno sviluppo di qualche qualità. Intorno a questi due solitari monumenti alla cultura dilaga un’inutile marea di parcheggi di automobili, centri per lo shopping, parchi d’affari, ristoranti a tema, tutti così inconsistenti e vani che potrebbero essere spazzati via con la stessa rapidità con cui sono stati calati qui senza attenzione.
In forte contrasto con tutto questo, l’Imperial War Museum è una vera opera di architettura piena di idee, testimonianza della maestria di coloro che l’hanno realizzata. Su tutto domina l’immensa fama che Libeskind si è guadagnato come architetto del Museo Ebraico di Berlino. Nella sua carriera, l’Imperial War Museum di Manchester è soltanto la terza opera che ha completato. Non ha l’intensità emotiva dell’opera berlinese (e come potrebbe?), non ha la stessa delicatezza nell’uso dei materiali, e tuttavia dimostra che il Museo Ebraico non è un caso isolato di talento.
Il Museo di Manchester è il prodotto dell’unione fra la volontà dell’istituzione londinese di stabilire una presenza al di fuori della capitale e il desiderio delle autorità locali di avviare un’operazione di rinnovo urbano sotto il segno della cultura. L’Imperial War Museum ha indetto un vero e proprio “concorso di bellezza” per individuare il luogo adatto, e a Manchester ha trovato un luogo che offriva le maggiori potenzialità (oltre alla disponibilità a un coinvolgimento in termini finanziari). Passo successivo un concorso di architettura, vinto da Libeskind, il quale conferì al progetto un alto profilo e la capacità di saper raccontare la storia, caratteristiche che subito piacquero ai committenti.
Il budget limitato permetteva di costruire poco più di un capannone industriale. Libeskind ha preso questo capannone puramente utilitario e l’ha trasformato in un edificio carico di significato. Ha affrontato l’impegno inquietante di creare un museo dedicato alla guerra, sapendo molto bene che avrebbe potuto essere visto come una banalizzazione, che usa l’orrore per fare spettacolo e intrattenimento. Decise che sarebbe stato un edificio serio e pieno di dignità, e concepì l’idea di un globo infranto dalla violenza della guerra, di cui si fossero salvati alcuni frammenti, rimessi poi insieme in forma più o meno caotica. Questa idea convinse immediatamente, e la sua forza riuscì persino a far superare le difficoltà insorte per il taglio di un terzo del budget e il cambiamento del materiale da impiegare nella costruzione: dal cemento all’acciaio.
Il museo ora è situato sul bordo del porto-canale, che è l’unica caratteristica di rilievo dell’area. È collegato da un nuovo ponte pedonale inutilmente possente (un cliché ormai inevitabile degli interventi di rinnovo urbano, a quanto pare) al Lowry Centre di Wilford, situato sulla riva opposta. Libeskind non rivela subito tutti i suoi segreti. La costruzione è un po’ arretrata rispetto all’acqua, e sembra a prima vista una curiosa collezione di frammenti architettonici. Argentee forme curve galleggiano sopra cupi muri grigi, la cui modestia denuncia i tagli nel budget. L’ingresso è un tunnel di cemento che fora il volume più grande, una torre curva che si eleva sul resto del complesso. Oltrepassata la soglia, si capisce che l’imponente forma massiccia è in realtà cava e vuota. Di fatto non è neppure uno spazio interno in senso stretto. Le pareti sono aperte ai venti. È una pausa che colpisce e scuote, un avvertimento sconvolgente, un luogo in cui il visitatore è invitato a meditare su alcuni fra i temi più angoscianti con i quali il genere umano si deve confrontare.
Poi si oltrepassa un’altra soglia e ci si trova in quello che sembra un atrio sotterraneo, con caffè e negozi, parte ormai inevitabile di ogni museo contemporaneo. Su una parete c’è una serie di disegni di globi sezionati, ovvero la pietra di Rosetta che Libeskind ha fornito per decodificare la sua architettura. L’architettura prende sul serio le proprie metafore. Il pavimento di asfalto nero dell’area espositiva principale è lievemente incurvato, per riprodurre la sezione di globo dal quale deriva, completa di un punto che segna il polo nord. Il museo è diviso in quattro parti – cielo, mare, terra e acqua – che corrispondono ai tradizionali teatri di guerra. È organizzato attorno a un percorso di circolazione a spirale, che conduce i visitatori verso l’alto, dal buio ingresso alle due aree espositive principali – una delle quali ospita la collezione permanente del museo, l’altra le esposizioni temporanee – e infine a un ristorante che si affaccia sul canale.
Questo è il tipo di museo che mescola oggetti (i più importanti un reattore Harrier a decollo e atterraggio verticale del Corpo dei Marine americani e un carro armato sovietico T34) e attrezzature per le proiezioni multischermo. Vi si può trovare l’arma da cui partì il primo sparo britannico della seconda guerra mondiale; ci sono uniformi, documenti e oggetti di propaganda, e attrezzature mobili per la proiezione di audiovisivi che trasformano l’interno del museo in una specie di cinema alla Eames. Si nota anche una certa fobia per la parola scritta, tipica di molti musei contemporanei. Le didascalie sono ultrasintetiche, nella convinzione – piuttosto altezzosa, a dire il vero – che tutto ciò che noi visitatori siamo in grado di assorbire, a proposito della seconda guerra mondiale per esempio, si compendi in un haiku di quarantasette parole.
Grazie al cielo non tutto il museo è organizzato in questo modo spiritato. Si può anche trovare una cassetta piena di carte che regolavano la vita dei soldati nella seconda guerra mondiale; un taccuino con i nomi dei parenti prossimi dei membri dell’equipaggio di un cacciatorpediniere; un telegramma sbiadito dell’ammiragliato che comanda a un giovane sottotenente di tenersi pronto a lasciare l’Inghilterra con un preavviso di quarantotto ore, e avverte che “non è prescritta l’uniforme per i tropici”. Il visitatore è lasciato a meditare su che cosa può avere provato, sessantadue anni fa, la persona che si trovò sul tavolo della prima colazione questo invito a partire per qualche freddo e ignoto paese. Insomma, il museo ci lascia trarre le nostre conclusioni, invece di insistere a interpretare per noi la realtà: e ci mette sotto gli occhi il foglio autentico che mandò un giovane alla guerra. L’architettura di Libeskind offre un contesto solenne, austero ma non sinistro, a sostegno di questa scelta intelligente.







Il progetto del marmo - site visit a Carrara
Sedici giovani architetti internazionali hanno partecipato a Carrara a due giornate intensive di formazione organizzate da FUM Academy e YACademy, con visite alle cave di marmo e un workshop progettuale dedicato all’uso del materiale.