“Architettura è rappresentazione e riconoscimento dell’altro”, intervista a David Adjaye

L’architetto racconta a Domus come dare forma all’architettura per narrare la pluralità delle istanze del XXI secolo.

Questo articolo è stato pubblicato in origine su Domus 1039, ottobre 2019

Qual è il ruolo dell’architettura oggi?
L’architettura al suo meglio, nel XXI secolo, è quella che accoglie le aspirazioni del tempo – quella che chiamo “la moralità del tempo” – trasformandola in tipologie plausibili, più efficaci nel permetterci di vivere una vita migliore. Ambisco a realizzare un’architettura che provochi dibattito, consentendo al cittadino di essere attento e consapevole rispetto alle urgenze della società. Credo in un’architettura che possa rappresentare il pensiero e la volontà delle persone nel mondo – in opposizione alla narrazione che viene imposta dai leader alle persone. Penso che il XXI secolo sia critico in questo senso: ci stiamo allontanando dalle meta-narrazioni che ci vengono imposte.

Stai lavorando per diverse commissioni pubbliche, a monumenti come la Cattedrale nazionale del Ghana. Quali idee guidano questi i tuoi ultimi lavori?
Cerco di lavorare all’interno di narrazioni che possano essere intese come evoluzioni e che possano contribuire a ridefinire il ruolo dell’architettura. Oggi sto esplorando la nozione di memoria usando il monumento come figura pedagogica per rappresentare delle istanze. Ciò m’interessa perché, nel tempo, mi è diventato sempre più chiaro che l’architettura ha il potere di riscrivere il tessuto urbano assecondando la pluralità delle narrazioni propria del XXI secolo.

Come si esprime questa “narrazione della pluralità” in architettura?
Come è successo in letteratura o nelle arti, l’idea di singolarità è stata completamente frammentata in molteplici traiettorie. Usiamo l’arte per esprimerci, ma sono le costruzioni che realizziamo a ‘civilizzarci’. Faccio parte di un movimento costituito da una nuova generazione di architetti che vuole scindere la singolarità della narrazione architettonica in molti futuri possibili, che siano in grado di rispondere alle specificità delle culture e dei luoghi geografici, alle persone, in una dimensione sia locale sia migratoria. La mia generazione vuole scuotere il mondo, alleviando la sensazione di disorientamento che le persone vivono: siamo tutti in costante migrazione, siamo un flusso.

Qual è la direzione che si sta prendendo?
Ci stiamo spostando dal vecchio mondo de “la tua nazione, il tuo popolo” a “siamo un pianeta, noi siamo il popolo di questo pianeta e dobbiamo definire assieme cosa facciamo, come lo facciamo, cosa pensiamo e cosa vediamo nell’universo”. È un momento affascinante per l’architettura e significa che dobbiamo rifare la città.

Hai affermato che il Regno Unito avrebbe bisogno di un museo che rappresenti la storia e la cultura africana, come lo Smithsonian per gli Stati Uniti. Come s’inserisce questa vicenda in questo contesto?
C’è la necessità di riconoscere che ci sono altre culture che contribuiscono all’identità del Regno Unito, oltre alla cultura bianca europea. Il progetto per lo Smithsonian, il Museo nazionale di storia e cultura afroamericana, ha confermato l’importanza dell’orgoglio nell’unità, nel rispetto delle differenze: mi ha impressionato vedere così presente quest’orgoglio di essere americano nelle persone di colore. Abbiamo completamente frainteso il potere dell’architettura, che è rappresentazione e riconoscimento dell’altro. Londra sostiene di essere il posto più metropolitano d’Europa, il più vario, cosa che le riconosco, ma la sua è ancora un’architettura autoritaria, segnata da quella che chiamo “estetica del neo-impero”. Ciò viene dall’idea di ‘nazione’ che abbiamo diffuso nel XIX secolo: sappiamo però ormai che le nazioni sono narrative fittizie.

David Adjaye

Come pensi che un museo di cultura e storia africana nel Regno Unito si differenzierebbe da quello afroamericano?
Non l’ho ancora progettato! Volevo lanciare una provocazione alla coscienza pubblica. È un dibattito importante ed è ancora in corso. Il museo potrebbe essere realizzato presto, o in un futuro più distante: l’architetto potrei non essere io, ma questo non è importante. Ciò che è importante è che si sviluppi un dibattito: bisogna rendere visibili queste istanze invisibili, per poi trasferirle nella forma.

David Adjaye, nato in Tanzania da genitori ghanesi, ha aperto il suo primo studio nel 1994, rifondandolo nel 2000 come Adjaye Associates.

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