Antonio Marras: aspirante minimalista, accumulatore seriale

Lo stilista ci fa entrare nella sua abitazione-laboratorio ad Alghero, un luogo che informa tutto il suo modo di essere e disegnare.

Antonio Marrasnella sua casa. Foto Daniela Zedda

“Nella mia profonda natura nasco minimalista. Aspiro a uno spazio asettico, bianco. Vuoto. Senza niente”. Le confessioni, anche quelle che sembrano indicibili, hanno sempre un abbassamento di tono. Come la voce di Antonio Marras che subisce, d’improvviso, una piccola inflessione, a tratti religiosa. “La verità è che sono una contraddizione in termini. Sono il fallimento della mia analista”, lo stilista e costumista eclettico e multiforme scoppia in una risata fermandosi dal suo vortice di appuntamenti, impegni e check-in. “In realtà, le mie case sono l’opposto, cariche di segni, di tracce e di passato. Credo che la cosa fondamentale sia un mix di nuovi e vecchi luoghi. Cosa dovrei fare? Amo vivere con un accumulo. Ho una voglia di avere più cose, mi piace il multiplo, adoro l’addizione”.

La casa di Alghero, in cui l’artista sardo vive per la maggior parte del tempo con Patrizia – moglie, musa e madre dei suoi due figli – è un’isola nell’isola. In mezzo agli ulivi, sulla cima della collina da cui si vede il mare, è immersa in quell’odore pungente che solo la macchia mediterranea possiede. Un mix di mirto, gelsomino, ginestra. “Quello che si sente appena entrati è il profumo dell’elicriso. Ma non è una cosa che si possa raccontare, non ha denominazione. È un po’ come il bello: quando lo senti, solo tu sai che lo è”. Un susseguirsi di grandi stanze e cortili, una piccola piscina, santini alle pareti, tessuti ricamati, fiori appassiti, libri e i tramonti di Capo Caccia, promontorio che protegge la baia di Alghero. “È la mia Casa con la C maiuscola, quella che abbiamo costruito con le mani e con il cuore, un luogo vissuto, costruito mattone dopo mattone, anche se sembra sia stato edificato duecento anni fa”. Un’abitazione-laboratorio, su due livelli, pochissime porte, ampie vetrate, lo studio al primo piano e a quello superiore una biblioteca.

Foto Daniela Zedda

“Fino a poco tempo fa era uno spazio senza confini tra il privato e il lavoro, poi siamo intervenuti in alcune parti. La casa di Alghero rappresenta soprattutto una nostra proiezione, o forse dovrei dire una nostra appendice. È quel posto da cui non vedi l’ora di allontanarti, sapendo poi che è lì che tornerai”. Un rifugio in cui Antonio, alla faccia di jet lag, voli oltreoceano ed eventi internazionali, vive con la famiglia di figli, parenti, cani adottati e piante infinite. “Ho uno spiccato pollice verde, nelle cose che faccio mi sento un po’ un animale e ragiono per istinto. Mi piacciono le combinazioni di piante che insieme creano qualcosa. La natura ha un’abilità e una capacità di rimodellare, ricreare e rendere armonioso qualcosa che all’inizio può essere brutto e storpio. Solo mettendo insieme, in un vaso, piante diverse, si ricrea un habitat ideale. Un’armonia, una magia di forme e di volumi che solo la natura riesce a dare. Sono contaminato da questo aspetto, mi inoltro in discipline che non sono le mie, con pudore, con incoscienza”.

Foto Daniela Zedda

Un’anima inquieta, quella di Antonio Marras, un vulcanico caleidoscopio sempre in movimento, che tra una sfilata e un’altra si dedica ad altri mille progetti, come un Re Mida contemporaneo. Dalla laurea in architettura – che per ora rimane un’ambizione nel cassetto – allo spettacolo che a novembre debutta al Teatro Massimo di Cagliari come riadattamento della mostra realizzata in collaborazione con la Galleria Massimo Minini di Brescia. “Vorrei sempre avere la possibilità di dialogare, di confrontarmi e scontrarmi con quelle che sono le discipline del teatro, della poesia, della danza. Con tutto quello che gravita intorno, anche con i tabù”. Anche per questo, cinque anni fa, l’Accademia di Brera gli conferisce la laurea honoris causa in Arti visive. “Non ho mai pensato di dovermi fermare davanti a niente. L’unica mia paura è di dipendere da qualcuno. Tutto il resto è fonte di stimolo e di ricerca, di scoperta e di curiosità, che mi spinge a confrontarmi”. L’accento sardo è intenso, il discorso procede per visioni, figure retoriche e memorie. “Mi interessa dialogare con gli spazi. Per me abitare equivale a vivere una giusta dose di luce e di ombra, di corsa e di riposo. Aspetti fondamentali che nascono dalle mie necessità, sono affascinato dal mio essere incompiuto. Mi piacciono i luoghi che raccontano una storia, che sono testimoni di vite vissute. Ascolto e cerco di capire se gli oggetti hanno qualcosa da dire, me lo ha insegnato l’artista Maria Lai. Come le bottiglie e le nature morte di Morandi, che raccontano case e momenti di vita”.

Foto Daniela Zedda

Una vecchia palla da tennis, squartata in due come un melograno, che il figlio Leo aveva trovato in campagna, ora campeggia su un tavolo come fosse un’opera d’arte. E poi i giocattoli di legno trovati in giro per il mondo, le ampolle con rose recise, gli specchi, vecchi armadi di legno. Un’elegia mediterranea fattasi abitazione contemporanea.
“Alle spalle della casa, alcuni cari amici hanno un maneggio, si sente il nitrire dei cavalli insieme al frinire incessante delle cicale. Si avverte il connubio, o dicotomia che dir si voglia, fra quella che è la campagna e la natura, il paesaggio di fronte: il mare. In effetti, il termine isola significa ‘nel mare’”. Anche se la sua finestra ideale dà sul Ponte di Brooklyn, per Marras la Sardegna ha sempre avuto un ruolo determinante, anche quando è a New York, a Parigi, a Milano. “Sono profondamente legato alla mia terra, è vitale e creativa, chiusa e aperta. Straordinaria e molteplice, piena di ossimori e contrasti, carica e sfaccettata, ricolma di tutti i termini, di contraddizioni, attratta da quello che viene da fuori. Noi siamo mare”.

Antonio Marras nel suo studio, al primo piano dell’abitazione, caratterizzata da ambienti con grandi vetrate e poche porte. Foto Daniela Zedda
Antonio Marras nel suo studio, al primo piano dell’abitazione, caratterizzata da ambienti con grandi vetrate e poche porte. Foto Daniela Zedda

Nato ad Alghero nel 1961, migrante e cittadino del mondo da quando ha vent’anni, oggi più che mai è pronto all’attracco e all’accoglienza. “Noi sardi siamo sempre stati abituati, nel tempo, a lanciare le cime. Abbiamo avuto un rapporto particolare con chi arrivava da fuori. Siamo la somma di quello che ci ha preceduto: fenici, punici, bizantini, arabi, catalani, francesi. Tutti sono arrivati su queste coste e hanno lasciato tracce”.
“Odio gli indifferenti e odio chi non parteggia, io sono un partigiano”. Questa frase di Antonio Gramsci viene usata nella collezione uomo 2003-2004. “Tutto è politica. Come potrebbe non esserlo? Il mondo e la vita non possono non influenzare il nostro lavoro. E dico nostro perché il mio lavoro, fare stracci, è come quello di tanti altri. Chi si occupa di moda, dallo chiffon al cachemire, fino alla grandezza del pois, non si può isolare. Non si deve pensare di vivere all’interno di una gabbia dorata”. Il racconto si ferma. “Dovremmo guardare il mondo con altri occhi”, sussurra, “solo la bellezza potrà salvare il mondo”.

Foto Daniela Zedda

Questo articolo è stato pubblicato in origine su Domus Paper, in allegato al numero di ottobre 2018 e distribuito gratuitamente a Milano durante i Brera Design Days.

Speciale Domus Paper

Altri articoli di Domus

Leggi tutto
China Germany India Mexico, Central America and Caribbean Sri Lanka Korea icon-camera close icon-comments icon-down-sm icon-download icon-facebook icon-heart icon-heart icon-next-sm icon-next icon-pinterest icon-play icon-plus icon-prev-sm icon-prev Search icon-twitter icon-views icon-instagram