Quali padiglioni non perdere alla Biennale Venezia 2023

Tra Giardini, Arsenale e centro storico è facile perdersi, alla vastissima Biennale di Architettura di quest’anno. E perdere tempo: per evitarlo, ecco la nostra guida con la mappa dei padiglioni immancabili.

Sono 64 le partecipazioni nazionali a questa Biennale di Architettura 2023, che si accompagnano alla mostra The Laboratory of the Future della curatrice Lesley Lokko (qui l’intervista con il direttore editoriale Walter Mariotti). I padiglioni sono distribuiti tra i Giardini (27) e l’Arsenale (22), con un certo numero anche fuori dalle aree espositive istituzionali di Biennale e disseminato nel centro di Venezia. Sono tanti, tantissimi se si considera che ognuno ha una sua storia, un suo background che va spesso studiato dedicandogli del tempo, per non rendere la visita un inutile esercizio di presenza.

Dopo avere condiviso le nostre prime impressioni raccolte nei giorni della pre-apertura e per semplificare la vostra visita a questa Biennale 2023, abbiamo scelto una decina di padiglioni essenziali e imperdibili, perché capaci di veicolare il loro messaggio in forma davvero diretta, perché tecnicamente ineccepibili o perché rappresentano un frammento di una storia che riteniamo essenziale da conoscere. Se vi rimangono dei dubbi su Biennale invece le risposte la trovate probabilmente qui nella nostra guida rapida

1. Germania, “Open for mantainance” (Giardini)

La presenza tedesca alla Biennale di Architettura è ispirato al movimento Instandbesetzung (squat e manutenzione) della Berlino degli anni Ottanta. “Open for Maintenance” è un esperimento di vita all’interno della struttura nei Giardini. Nella stanza principale sono stati accumulati i materiali di spoglio di oltre 40 padiglioni della Biennale Arte 2022, che saranno riutilizzati nell’ambito di una serie di workshop con studenti. Il resto del padiglione sono spazi di supportare questa attività, compresi un bagno ecologico e una cucina, realmente utilizzabili. Per realizzare il programma, i curatori - Arch+ / Summacumfemmer / Büro Juliane Greb.

G.R.

2. Serbia, “In reflections” (Giardini)

Tolulope Fatunbi, Southeast pavilion of The Trade Fair Complex in Lagos, 2023. Video. Private Collection. © Tolulope Fatunbi

“La presenza del passato”, ma non quella che ci aspetteremmo: è la storia del movimento dei Paesi non allineati, che dalla sua nascita negli anni ‘60 stringe legami con tanti Stati dell’Africa decolonizzata, che si traducono in progetti. L’allora Jugoslavia è uno di questi paesi, e la società serba Energoprojekt quella che costruisce la grande fiera di Lagos. In Reflections è il progetto con cui Iva Njunjić e Tihomir Dičić hanno avvicinato questa architettura, ormai in una fase di vita già successiva a quella per cui era nata, allineando in un’ellisse generata da specchi il concept, e la documentazione di ieri e dell’oggi, per individuarne un presente continuativo capace di sopravvivere alla sua prima idea generatrice e trasporne la validità nel contemporaneo.  

G.C.

3. Belgio, “In vivo” (Giardini)

Nel padiglione del Belgio, una grande installazione dalle pareti di pannelli di micelio e terra cruda – una sorta di padiglione nel padiglione – esplora le possibilità dei materiali costruttivi naturali e di origine organica su grande scala. Il variegato team, guidato dall’associazione di architetti Bento e da Vinciane Despret, filosofa e docente di psicologia ed etologia, si chiede se in un mondo dove le risorse sono sempre più scarse, anzi quasi terminate, i funghi siano un’alternativa al nostro modo di produrre ‘estrattivista’. Il loro progetto è un laboratorio sui nuovi modi di vivere, un “punto di partenza per pensare, registrare, affermare, confermare, revocare, progettare, fantasticare e soprattutto sognare”. Come suggerisce Anne Tsing nel suo libro seminale Il fungo alla fine del mondo, “raccogliere funghi non ci salverà, ma potrebbe aprire la nostra immaginazione”.

E.S.

4. Giappone, “Architecture: a place to be loved” (Giardini)

Come Germania, Austria, Svizzera e Israele, anche il Giappone si confronta con lo spazio del proprio padiglione, progettato nel 1956 da Takamasa Yoshizaka. “Costruire le cose significa trasmettere loro la vita”, sosteneva.  
La curatrice Maki Onishi con il curatore aggiunto Yuki Hyakuda (o+h architects) partono da qui per dimostrare che l’architettura è soprattutto un luogo da amare, difetti compresi, e di cui prendersi cura. Mentre nella parte superiore del padiglione si ripercorre la sua storia progettuale, al livello sottostante si gode dello spazio annusando gli aromi delle piante distillati sul posto grazie a bizzarri alambicchi. La loro è una dichiarazione poetica di sostenibilità, tutto sommato perfettamente praticabile da chiunque, subito e ovunque.

E.S.

5. Austria, “Partecipazione/Beteiligung” (Giardini)

Pavilion of Austria

Con un’operazione riuscita solo a metà, ma che non ha perso la propria forza politica di denuncia di un incessante espansionismo territoriale a danno dei veneziani, il collettivo d’architettura Akt e l’architetto viennese Hermann Czech hanno trasformato il padiglione austriaco in un manifesto di lotta sociale. Volevano dividere il padiglione in due e creare un ponte di collegamento sul canale che separa dall’area di Sant’Elena. Una parte sarebbe stata ceduta alla popolazione per iniziative civiche e sociali, ma un anno di dibattito con le autorità competenti non ha portato a nulla. Di quel progetto rimane una scala che termina con una piattaforma con vista sul canale, e la documentazione di un’idea di partecipazione anni Settanta. 

L.M.

6. Messico, “Infraestructura utópica” (Arsenale)

Un campetto da basket pubblico difficilmente è solo uno spazio ricreativo. È un luogo abitato in cui si creano relazioni e processi. Calato in un contesto come quello rurale messicano, diventa poi un laboratorio di decostruzione di uno stilema sportivo occidentale (e molto statunitense). Il Messico presenta alla Biennale di Venezia un coloratissimo frammento in scala 1:1 di un campo da basket contadino, “luogo d’incontro privilegiato per processi di decolonizzazione delle comunità indigene”. Intorno, uno spazio di socializzazione con musica danze e mescal. Intelligente, divertente, ben coreografato, imperdibile. Curatela artistica e ricerca: Mariana Botey; curatela architettura: Apredelesp.

A.S.

7. Israele, “Cloud-to-ground” (Giardini)

In inglese scientifico, il fulmine è identificato con il termine cloud-to-ground. Cloud-to-ground è anche il titolo del padiglione di Israele alla XVIII Biennale, curato da Oren Eldar, Edith Kofsky e Hadas Maor, che riflette sulle implicazioni architettonico-spaziali e geo-politiche legate alla materializzazione dei dati digitali (cloud) nelle infrastrutture terrestri (ground) di stoccaggio e trasmissione. Una sintetica esibizione di maquette astratte in calcestruzzo occupa la piccola piattaforma retrostante il padiglione, che è interamente sigillato, inaccessibile, opaco anche alla vista. Accostandovisi, lo si sente pulsare, vibrare e risuonare di echi enigmatici, simbolici del mistero che avvolge, nell’immaginario comune, lo svolgersi di questi processi.

A.B.

8. Estonia, “Home Stage” (Venezia città)

Un appartamento veneziano ordinario, nelle calli relativamente isolate alle spalle dell’Arsenale, ospita Home Stage, il padiglione estone della XVIII Biennale, a cura di b210 architects. Per tutta la durata della biennale, performer del paese baltico risiederanno in questo interno domestico perfettamente funzionale ma anche hackerato da interventi artistici, che lo trasformano in uno spazio “critico” di riflessione sulle diverse forme dell’abitare contemporaneo e sul diritto alla casa. È un tema scottante nella Venezia contemporanea dell’overtouristification, in una Tallin ormai profondamente gentrificata e in tante altre città globali.

A.B.

9. Uzbekistan, “Unbuild Together: Archaism vs. Modernity” (Arsenale)

Unbuild Together: Archaism vs. Modernity è il tema scelto per la terza presenza uzbeka alla Biennale di Venezia, dopo le edizioni Architettura del 2021 e Arte del 2022. Il padiglione è curato da Studio KO e commissionato dalla Art and Culture Development Foundation of the Republic of Uzbekistan (Acdf). Il labirinto fatto di mattoni immerso nel buio è una riflessione incentrata sulle antiche qala del Karakalpakstan, regione occidentale del Paese in cui si trovano decine di queste città-fortezza. patrimonio risalente all’impero corasmio. Il progetto è stato elaborato con gli studenti della Ajou University di Tashkent (Aut) attraverso una serie di workshop nella capitale uzbeka e vede la collaborazione del maestro ceramista di Bukhara Abdulvahid Bukhoriy, il filmmaker El Mehdi Azzam, l’architetta e artista Miza Mucciarelli e la fotografa Emine Gödze Sevim.

G.R.

10. Lettonia, “TCL” (Arsenale)

Balla pericolosamente sulla linea sottile che separa la scelta delle idee dalla scelta della marca di detersivo – saltando senza troppo imbarazzo nella seconda – TCL (T/C Latvija) , il padiglione-negozio all’Arsenale curato da Uldis Jaunzems-Pētersons che “mette in vendita” come prodotti i 506 concept dei padiglioni nazionali dalle ultime dieci Biennali. La scelta come base del processo di architettura, l’estetica pop che enfatizza i linguaggi del consumo come per Hamilton e Warhol: tutto è strutturato dalle dinamiche del commercio. “Convinzioni individuali e senso di appartenenza, (...) adesione alla categoria di prodotto o desiderio di distinguersi dalla categoria in cui il prodotto è inserito”. Ci si riferirà alle ragioni di chi ha creato i vari concept, o alle ragioni di chi compra qualcosa?

G.C.

11. Brasile, “Terra [Earth]” (Giardini)

I curatori Gabriela de Matos e Paulo Tavares hanno voluto caratterizzare il padiglione con la presenza fisica e pervasiva della terra, perché il paese stesso potesse essere visto come terra, elemento di fondazione, fertile, segno di territorio ancestrale. Sviluppato con rappresentanze di popolazioni indigene e collettivi locali, il progetto racconta il Brasile come casa dalla grande profondità storica, mettendo parti di abitazioni popolari in contrasto colle forme moderniste del padiglione, decostruendo il mito di Brasilia come tabula rasa (per realizzarla si è rimossa una popolazione), indagando come – in una contemporaneità fatta di estrazione e consumo – i territori meglio preservati e concretamente future-proof siano proprio quelli delle popolazioni indigene e Quilombola.

G.C.

Hanno contribuito ai testi: Alessandro Benetti, Giovanni Comoglio, Loredana Mascheroni, Giulia Ricci, Alessandro Scarano ed Elena Sommariva

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