Stefano Graziani

L’ultimo libro del fotografo triestino raccoglie scatti provenienti da diverse linee di ricerca, ma tutte presentate come appartenenti a un medesimo genere, la natura morta.

  È un libro eclettico l’ultimo di Stefano Graziani, Nature morte, il quarto pubblicato con il gallerista modenese Emilio Mazzoli, che accompagna la mostra omonima aperta fino all’8 ottobre. Il libro presenta fotografie provenienti da diverse linee di ricerca del fotografo triestino, alcune più antiche (l’architettura), altre più recenti (i fuochi d’artificio), ma tutte presentate come appartenenti a un medesimo genere, la natura morta. I soggetti delle immagini più recenti di Graziani non hanno nessun significato allegorico o metaforico, sono “cose che sono solo se stesse”, e peraltro sono state esposte quest’anno anche a Reggio Emilia in occasione di Fotografia Europea, nonché pubblicate in un altro volume appena dato alle stampe, Fruits and Fireworks (A&Mbookstore, Milano 2016).

Stefano Graziani, Nature morte, Galleria Mazzoli Editore, Modena 2016.

Certo, in Nature morte colpisce la presenza di una chiesa minore del barocco romano, Santa Maria in Portico in Campitelli di Carlo Rainaldi – fra le preferite di Peter Eisenman per via delle relazioni sintattiche che la accomunano al Palladio –, della facciata di San Carlino di Borromini, di un paio di edifici viennesi di Adolf Loos, oltre che dei fuochi d’artificio. Più naturale invece è la presenza di frutta, verdura e pietre.

Stefano Graziani, Nature morte, Galleria Mazzoli Editore, Modena 2016.

In generale, Graziani predispone dei modelli o delle nature morte come un pittore. E occorre rivolgersi a termini di paragone pittorici per cercare di sciogliere l’enigma che queste fotografie ci pongono. L’atmosfera enigmatica è propria di più di una corrente pittorica italiana del primo Novecento: dal classicismo moderno del gruppo Novecento all’aria apollinea di Valori plastici (per le cui edizioni Roberto Longhi pubblicò la sua riscoperta di Piero della Francesca, da sempre riferimento compositivo cardinale di Guido Guidi), fino all’isolamento degli oggetti familiari, resi così straniati e stranianti, della pittura metafisica – vedi i quadri di Giorgio De Chirico, L’enigma dell’ora, L’enigma dell’oracolo, L’enigma di un pomeriggio d’autunno e così via.

Stefano Graziani, Nature morte, Galleria Mazzoli Editore, Modena 2016.

A ben vedere però c’è un’altra banda di pensiero a cui Graziani tende, più defilata e minoritaria: quella del realismo magico, spesso confusa con altre a cui è accomunata da un generale sentimento di rappel a l’ordre in cui, analogamente, è incappata di recente anche l’architettura internazionale, specie quella nordeuropea. Almeno da quando l’ha investita la crisi economica più lunga che si ricordi, troncando i sogni di gloria di una crescita infinita. Mi riferisco in particolare agli architetti belgi fiamminghi e svizzeri tedeschi con cui Graziani ha collaborato recentemente, si veda il lavoro presentato alla Biennale di Architettura di Venezia di quest’anno con Freek Persyn [1], ma anche le numerose collaborazioni con Kersten Geers, come la retrospettiva “Everything Architecture” di Office al Bozar di Bruxelles di quest’anno o le fotografie prese per l’ampliamento del Kunstmuseum di Basilea [2] di Christ & Gantenbein.

Stefano Graziani, Nature morte, Galleria Mazzoli Editore, Modena 2016.

Dopotutto, Graziani è tra i fondatori della rivista San Rocco, pubblicata dal 2010 e scritta in inglese, che ha accolto una koinè “classicamente moderna”, almeno nelle intenzioni, e che ha riscoperto l’assonometria come forma di rappresentazione prediletta (la più straniante, appunto) con una vaga affinità, certamente involontaria, con la rivista diretta da Massimo Bontempelli 900 (da non confondere col “Novecento” in lettere della veneziana Margherita Sarfatti) che era pubblicata solo in francese. Anche se questa non è la sede giusta per discuterne, certo la comune volontà di estraniarsi da ogni fenomeno di costume o di moda che ha segnato San Rocco ha finito per costituire a sua volta una nuova moda o almeno un certo gusto corrente, opposto agli eccessi iconici e edonisti dei blob e rendering del ventennio precedente – un ennesimo ritorno all’ordine insomma.

Stefano Graziani, Nature morte, Galleria Mazzoli Editore, Modena 2016.

Forti sono gli accenti da realismo magico o di real maravilloso – vista la sua profonda conoscenza della letteratura sudamericana – anche nel breve ma significativo scritto di Nanni Cagnone, raffinato poeta e editore che da anni collabora con la galleria Mazzoli (“non riesco a credere che ci siano oggetti inanimati”); quantomeno bizzarra, visto il finale dadaista, è invece la testimonianza di Pier Paolo Tamburelli, altro fondatore di San Rocco, quasi a tirare il sasso e poi a nascondere la mano (“Di una cosa possiamo essere sicuri: il mondo non è. E non è uno scherzo, un bon mot alla Magritte. I limoni non ci sono, l’ordine c’è… Il numero di semi dei due mezzi meloni predice con certezza l’età a cui morirà l’ultimo orso polare”).

Stefano Graziani, Nature morte, Galleria Mazzoli Editore, Modena 2016.

In ogni caso, il realismo magico nel lavoro recente di Graziani consiste in una realtà che all’apparente resa oggettiva contrappone una semplificazione dell’immagine, che ricerca quell’effetto di straniamento che determina il contrasto tra realtà apparente e artificiosità di resa: analogamente ai pittori veneziani e triestini analizzati da Fabio Benzi, che giustamente guardavano alla fonte primigenia del magische Realismus coniato dal critico tedesco Franz Roh nel 1925, nelle fotografie di Nature morte s’instaura “una sorta di muta contraddizione dei termini rappresentativi e percettivi” [3]. Del resto Graziani è nato, si è formato, vive e lavora fra Trieste e Venezia, dove l’anno scorso ha dato vita al master IUAV in Fotografia, coordinato insieme ad Andrea Pertoldeo (altro allievo di Guidi), il primo master pubblico in Italia dove la tradizionale carenza di offerta formativa in questa disciplina ha fatto sì che tutti i maggiori fotografi frequentassero architettura, come se fosse l’unica zona franca in grado di ospitarli (e infatti Guidi, Gabriele Basilico, Mimmo Jodice, Paolo Rosselli, sono tutti architetti, così come proprio allo Iuav Italo Zannier per anni ha tenuto il primo corso di Storia della fotografia).

Stefano Graziani, Nature morte, Galleria Mazzoli Editore, Modena 2016.

Tornando alla “muta contraddizione dei termini rappresentativi e percettivi”, questa è solo una radice del problema che assilla oggi ogni fotografo, a cominciare da quel Jeff Wall studiato così a lungo da Graziani. Wall ha trovato infatti proprio nelle nature morte dapprima un terreno di studio e in seguito uno spazio di sperimentazione fondamentale per la sua attività fotografica: “i cosiddetti ‘generi bassi’, quali la natura morta, poterono essere reinterpretati da Cézanne, Picasso o Mondrian perché erano gli spazi più liberi per una sperimentazione interna alle tradizionali istituzioni della pittura […] Se, come si è detto, il rivoluzionamento della pittura è stato effettuato nell’ambito dei generi pittorici bassi, si deve perciò ragionevolmente pensare che questi rappresentassero la ‘pittura in quanto tale’, la pittura storicamente intesa come arte e come oggetto di un’estetica” [4].

Stefano Graziani, Nature morte, Galleria Mazzoli Editore, Modena 2016.

Ecco allora perché non bisogna sottovalutare questo lavoro parallelo di Stefano Graziani. Intendo parallelo rispetto ai circuiti classici dell’architettura, nei quali si è formato e con i quali continua a intrattenere un dialogo costante (come per esempio i due lavori per il Museo MAXXI di Roma e per il CCA di Montreal, rispettivamente sugli archivi di Superstudio e di Ábalos & Herreros [5]). Il suo lato più personale e immaginativo, però, è quello che investe le nature morte, come la serie dedicata alle antiche pietre di Carnac o ai limoni così affini a quelli dei quadri di Cagnaccio di San Pietro: sono queste le immagini più caratteristiche che, per usare le parole di Franz Roh, irradiano “una magia intrinseca, una spiritualità e un mistero, a dispetto della loro quiete, rassegnazione o apparente sobrietà” [6].

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Note
1. 51n4e, Stefano Graziani, Falma Fshazi, How Things Meet, Art Paper Editions, Gent 2016.
2. AA.VV., Kunstmuseum Basel, New Building, Hatje Kantz, Stuttgart 2016.
3. Fabio Benzi, Arte in Italia tra le due guerre, Bollati Boringhieri, Torino 2013, p. 65.
4. Jeff Wall, Monocromia e fotogiornalismo nei Today Paintings di On Kawara, in Id., Gestus. Scritti sull’arte e la fotografia, a cura di Stefano Graziani, Quodlibet, Macerata 2013, p. 172.
5. Giovanna Borasi (a cura di), AP 164 Ábalos & Herreros, con un’interpretazione fotografica di Stefano Graziani, Park Books, Zurich 2016.
6. Roh, che detestava i fotografi che imitavano la pittura troppo pedissequamente, ha avuto una parentesi da fotografo e studioso della fotografia bruscamente interrotta dai nazisti che lo imprigionarono nel campo di Dachau. Cfr. Emily Braun, Franz Roh: tra postespressionismo e realismo magico, in Maurizio Fagiolo dell’Arco (a cura di), Realismo magico: pittura e scultura in Italia 1919-1925, Galleria dello Scudo, Verona 1988, pp. 57-64.