Kazunari Sakamoto: Lecture, Tao Baerlocher and Samuele Squassabia (Eds), Quart Publishers, Lucerne 2015.
Autonomia e negazione
Le conferenze, pubblicate in forma di libro, sono state un naturale strumento di espressione del pensiero moderno. Con il suo nuovo libro l’architetto giapponese Kazunari Sakamoto riprende questa tradizione riflettendo sui suoi progetti nel contesto dell’abitare, della città e della vita.
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- Tibor Joanelly
- 03 giugno 2016
Nella disciplina dell’architettura la conferenza viene spesso usata come occasione di formulazione teorica. Ha spesso carattere effimero e per questo talvolta le conferenze vengono pubblicate in forma di libro. Une Maison – Un Palais (1928) e Précisions (1930) di Le Corbusier sono esempi celebri. L’ultima è stata ripubblicata recentemente da Park Books (2015) e anche la conferenza tenuta da Louis I. Kahn nel 1969 all’ETH di Zurigo è ormai disponibile in volume (Silence and Light, Scheidegger & Spiess, 2013). Oggi Kazunari Sakamoto si ricollega a questa tradizione con la conferenza tenuta all’Accademia di Architettura di Mendrisio nel dicembre 2013. Il libro è stato pubblicato lo scorso anno.
Il sintetico titolo è Lecture, dato che osserva rigidamente la forma della conferenza: un’immagine per pagina, come se fosse proiettata in sala, cui si aggiunge qualche spiegazione. Un omaggio a Une Maison – Un Palais? Sakamoto ha tenuto la conferenza su invito di Go Hasegawa, che insegnava all’Accademia come guest professor.
L’organizzazione della conferenza sottende un riferimento giapponese: una precisa genealogia, che sostanzialmente si ricollega all’architettura moderna europea e quindi a Le Corbusier. Hasegawa ha studiato presso il laboratorio di Yoshiharu Tsukamoto del Tokyo Tech, l’Istituto di Tecnologia di Tokyo. Tsukamoto si è formato nello studio di Sakamoto, che a sua volta era stato allievo di Kazuo Shinohara (1925–2006). Shinohara da parte sua aveva studiato architettura con Kiyoshi Seike (1918–2005) che conosceva l’architettura moderna per esperienza diretta, attraverso i suoi viaggi in Europa. David B. Stewart ha pubblicato un lucido articolo su questa genealogia in werk, bauen + wohnen 12, 2015. Perciò il pensiero di Sakamoto subisce il profondo influsso dei concetti di spazio e di architettura di Shinohara, ed è affascinante seguire passo per passo il percorso di emancipazione di Sakamoto attraverso le pagine del libro (le diapositive della conferenza).
La divisone della sua opera creativa in periodi è anch’essa probabilmente ispirata a Shinohara, poiché l’obiettivo è la concettualizzazione dello spazio architettonico. “In Asia l’imitazione resta la più sincera forma di adulazione ed è considerata una componente essenziale di qualunque apprendistato artistico di successo”, scrive Stewart parlando della reverenza che Kenzo Tange ispirava al giovane Shinohara. Ma, se si fosse fermata qui, dell’opera di Sakamoto non varrebbe la pena di parlare. Attraverso la sua opera la concezione dello spazio di Sakamoto passa da una sfera complementare e astratta a un’indagine sulle tipologie abitative anonime, e di qui a una visione sintetica degli spazi urbani e del loro uso.
La stessa posizione artistica personale di Sakamoto si chiarisce grazie al concetto di “composizione”, che nel libro viene usato spesso. È la chiave per comprendere la sua opera, ma rimane anche un segreto ben conservato. La composizione come principio progettuale derivato da Shinohara è chiaramente riconoscibile tra il 1969 e il 1973: volumi, spazio e struttura sono resi con la tesa interiorità delle prime case cubiche e silenti. A partire dalla prima metà degli anni Settanta la netta distinzione tra pieni e vuoti viene abbandonata a favore di una potente modellazione spaziale e dal principio di un intreccio tra interno ed esterno della casa. Dal 1978 la composizione appare anche un principio guida in materia di alzato dell’abitazione; e inoltre spazi interni ed esterni sono caratterizzati da sempre più fitti elementi di continuità. Questi ultimi diventano uno dei temi fondamentali a partire dalla metà degli anni Ottanta, e collocano i progetti nel tessuto urbano.
I progetti, dopo un periodo di riflessione sui vincoli delle forme architettoniche complesse, all’inizio di questo secolo si sempre più orientati a un realismo architettonico. In due opere importanti – le case di Egota, a Tokyo, e il primo premio al concorso per la Werkbundsiedlung di Monaco di Baviera – i volumi tornano a essere cubi nitidamente delineati. In entrambi i progetti Sakamoto compone uno schema di unità spaziali piccole e grandi in un campo unitario di relazioni urbane. Le case e le unità abitative sono definite da una severa interazione spaziale con il tessuto urbano. In questi due progetti lo schema urbanistico rinuncia quasi completamente all’espressione architettonica. Supera qualunque riferimento mimetico o tipologico nei confronti della città.
L’indagine sul rapporto critico tra città e forma porta la recherche architecturale di Sakamoto ancora una volta vicino al suo maestro Shinohara: la più recente opera di Sakamoto in un contesto urbano sorge accanto all’Auditorium del Centenario del Tokyo Tech, progettato da Shinohara alla metà degli anni Ottanta. In contrasto con Shinohara, Sakamoto vede lo spazio urbano come parte dell’edificio. All’ingresso del campus del Tokyo Tech, compare ancora una volta la forma, ora sottoposta a un’oscillazione tra autonomia e negazione; Shinohara avrebbe parlato di “macchina”, che produce continuamente il caos urbano. Mentre secondo le stesse parole di Shinohara l’Auditorium del Centenario rispecchia l’irregolare bellezza della metropoli come “situazione casuale degli oggetti”, Sakamoto vede nella “forma compositiva [una potenzialità dell’architettura contemporanea], che mantiene in equilibrio i conflitti e integra le contraddizioni”. La potente concezione di Shinohara della città come “macchina” fatta di componenti discrete – ritenuta un omaggio a Le Corbusier – ora viene trasformata da Sakamoto in “condizione di realtà” in modo molto più sommesso, dando vita all’edificio attraverso “la varietà degli ambienti circostanti e delle differenti funzioni”.
La conferenza di Sakamoto ci dà un indizio su come l’architettura potrebbe sottrarsi alla dicotomia tra forma e vita urbana. E ci riesce, in modo molto giapponese, per vaghe allusioni e non esprimendo esplicitamente le contraddizioni tra città e architettura. E tuttavia sarebbe d’aiuto se la conferenza fosse accompagnata nel volume da un saggio che collegasse le differenze culturali e proiettasse qualche luce in più sull’interessante metodo di Sakamoto.
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