Utopia's Ghost

Reinhold Martin offre in questo libro una rilettura storica di alcuni dei principali temi del Postmodernismo.

Utopia's Ghost: Architecture and Postmodernism, Again
Reinhold Martin, University of Minnesota Press, 2010 (248 pp., US $25)

L'economista John Kenneth Galbraith scrive che la familiarità e la prevedibilità sono il segno dell'accettabilità di un'idea, ovvero di ciò che egli definisce "senso comune". Per Galbraith l'avversario del senso comune non sono le idee, ma il corso degli eventi. L'interazione tra la forza delle percezioni e degli atteggiamenti condivisi e i comportamenti concreti sta al centro di Utopia's Ghost: Architecture and Postmodernism, Again di Reinhold Martin. Affrontando vicende relativamente recenti della cultura architettonica Martin suggerisce che usare gli strumenti dell'analisi storica può essere inadeguato o prematuro. Il Postmodernismo (benché fuori moda per il fatto di non essere "né troppo antico né troppo recente") può essere invece usato per "mettere in evidenza una serie di concetti che sono stati rivisti in conseguenza di questo rivolgimento": invece di fare storia Martin va in cerca della storia in familiari pietre di paragone come Imparare da Las Vegas, i contatti di Peter Eisenman con la linguistica di Chomsky e le facciate a specchio dei palazzi di Philip Johnson per le compagnie petrolifere.

Nella sua disamina troviamo la negazione della complicità dell'architettura con il potere e con la politica unita a un "melanconico ritrarsi dall'impegno, o (il che è lo stesso) all'adesione preventiva ed entusiasta allo status quo". Benché affermi che ciò che potrebbe esserci di "più postmoderno nel pensiero architettonico [...] non è la sua verificabilità nella pratica, ma la sua condizione di modo di produzione in sé", l'attenzione di Martin spesso si concentra sugli edifici. Una descrizione particolareggiata dei "due oscuri solidi cristallini" del Pennzoil Place di Houston progettati da Philip Johnson e John Burgee approda a un'ampia mediazione dei rapporti tra architettura, materialità e capitale. Secondo Martin il petrolio (l'oil di Pennzoil) diventa una rete di rapporti costituita da una "pluralità ibrida di oggetti" tra cui la chimica, l'organizzazione industriale, la finanza, la geopolitica e altri fattori di dubbia consistenza che risultano da qualunque indagine sommaria, se mai qualcuno in architettura avesse la voglia di condurla.

Aldo Rossi con G. Braghieri, Cimitero di San Cataldo, Modena, 1962-1979

Proseguendo nell'esposizione troviamo la Union Carbide Corporation, che si è trasferita dalla sede direzionale del centro di Manhattan progettata da Skidmore, Owens e Merrill, a Danbury, nel Connecticut, in seguito alla crisi fiscale newyorchese nella fine degli anni Settanta. La sede direzionale fuori città, progettata da Kevin Roche e John Dinkeloo, utilizzò la retorica dell'egualitarismo (ogni dipendente avrebbe fruito di circa 17 metri quadrati di spazio di lavoro personale) e dell'individualità (ogni unità sarebbe stata dotata di una "veduta equivalente ma differente del bosco circostante"). Questo percorso progettuale fondato sull'equivalenza nella distinzione approdò a un edificio direzionale fatto di due parcheggi multilivello circondati da edifici a pianta stellare. Per gli uffici individuali Roche e Dinkeloo elaborarono trenta possibili stili d'arredamento e di accessori, che andavano "dal modernissimo al tradizionale" con il valore aggiunto di costi equivalenti. Le scelte finali possibili di "moquette, scrivania, piani di lavoro, lampade, piante, penne e matite, portacenere" furono fatte sulla base di un'indagine condotta tra i dipendenti. La creazione di un'equivalenza tra gusti personali e obiettivi lavorativi faceva parte di ciò che rendeva la Union Carbide un posto piacevole dove lavorare.

Robert Venturi e John Rauch, Guild House, Philadelphia, Pennsylvania, 1960-196

Naturalmente la storia della Union Carbide non è tutta qui. L'attenzione alla personalizzazione in fatto di scelta delle lampade si rivelò in tragico contrasto con la reazione alla gigantesca fuoruscita di 45 tonnellate di isocianato di metile dall'impianto indiano della Union Carbide di Bhopal, alla fine del 1984, che uccise o danneggiò, a quanto si stima, mezzo milione di persone. Il linguaggio del rispetto dell'identità personale che può aver funzionato tanto bene a Danbury si dimostrò eticamente inconsistente se applicato al valore delle vite perdute e invalidate a Bhopal. "Come si può determinare il danno inflitto a chi vive in una baraccopoli?" chiese un membro del collegio di difesa. Di fronte a simili affermazioni ci si sente solidali con coloro che, in architettura, hanno deciso di fare un passo indietro.

Trent'anni fa Carl Schorske descrisse la cultura viennese fin-de-siècle come qualcosa che non si riteneva "fuori del passato, e quindi non contraria al passato, ma indipendente dal passato". Questo lusso dell'indipendenza noi non ce lo possiamo permettere. Martin, mentre afferma di non voler tracciare una storia del Postmodernismo ma "una rilettura storica di alcuni dei suoi principali temi", in definitiva fa della storia un potente strumento di analisi invece che di immobilismo. La rilettura spesso sottolinea le colpe dell'architettura. Ma il valore di questa analisi è che essa implica la possibilità di trascendere queste colpe e, per usare le parole di Martin, di imparare "a pensare ancora una volta il pensiero chiamato Utopia".

Pollyhanna Rhee ha studiato alla Wake Forest University e alla Columbia University, dove ha avuto tra i suoi insegnanti Reinhold Martin.

Invece di fare storia Martin va in cerca della storia in familiari pietre di paragone come Imparare da Las Vegas, i contatti di Peter Eisenman con la linguistica di Chomsky e le facciate a specchio dei palazzi di Philip Johnson per le compagnie petrolifere.