di Manolo De Giorgi

Architettura d'interni contemporanea
Susan Yelavich, Phaidon, Milano 2008 (pp. 513, € 75,00)

Si allontana il Natale lasciando traccia di sé nelle strenne che fanno bella mostra sui tavoli bassi dei salotti. Architettura d'interni contemporanea ha la veste di regalo di qualità, un peso ragguardevole (3 chilogrammi) e uno sguardo internazionale che spazia a tutte le latitudini sul tema genericamente alla moda degli interni. Forse il titolo più adatto sarebbe dovuto essere quello che il libro aveva in inglese, quel Contemporary World Interiors che nella versione italiana qualche accorto editor ha pensato di modificare introducendo la parola 'architettura'. Perché chiamare in causa l'architettura? Forse perché esistono in Italia corsi universitari in architettura degli interni che raccolgono sempre più consensi? Forse perché nascono ora corsi di laurea specialistica in questa nuova disciplina? La parola 'architettura' rapportata agli interni è effettivamente un punto di vista molto specificamente italiano, ma secondo canoni della cultura del progetto che invano rintraccerete nel libro. Il libro tiene invece saldamente fermo il timone su una rotta intermedia che naviga a metà fra design e architettura firmata, tra super-decorazione e contract design, e la scelta dei casi riccamente articolata privilegia l'immagine nel suo effettivo strapotere ipnotico. Da questa lettura ci si immaginano studenti e professionisti subito pronti a fotocopiare, a scansire con ansia, a divorare ciò che di lì a poco verrà trasferito (incollato) in altrettanti interni, mentre il modo di produrre quella immagine rimane un nocciolo destinato a non spiegarsi mai, patrimonio privato di qualche onesto artigiano delle tre dimensioni che lavora nei seminterrati.

Le piante e le sezioni che vi compaiono sporadicamente, pulitissime, tutte omogeneizzate al tratto e non quotate, non aiutano a entrare progettualmente in nessuno degli interni che dovrebbero rappresentare il clou del domestico e dello spazio pubblico dei nostri giorni. Neanche la suddivisione tipologica ci porta a entrare un po' di più nella evoluzione delle funzioni e nella traduzione dei comportamenti "messi a misura". Tra le varie tipologie spetta agli uffici e ai negozi la palma della maggior inquietudine nei confronti di una modernizzazione a tutti i costi. Nastri di Corian che partono come piani di appoggio salgono e diventano controsoffitti, tubolari d'acciaio che da piani di appoggio si convertono in appenderia per vestiti, fasce che acquistano tridimensionalità coinvolgendo l'acquirente sopra e sotto: tutti segnali di come nel negozio il gestuale si sposa perfettamente con la necessità di vendere.

Negli uffici invece il tema della monotonia e della ripetizione del posto di lavoro viene rallegrato soprattutto da un'orgia di controsoffitti più o meno attrezzati a garantire una sorta di cielo sostitutivo. Anche il ricorso ai più classici procedimenti del progetto come l'addizione e la riduzione si macchia di un caleidoscopio di usi impropri. Nel caso dell'addizione: sommando 'trovate'; nel caso della riduzione: eliminando attrezzature. Il che non necessariamente porta alla produzione di alcun tipo di spazio.

Così anche esempi di notevole livello come la radicale T House di Simon Ungers (1993), che mette in ascisse e in ordinate le funzioni domestiche, la Brasserie di Diller e Scofidio a New York (2000), che concettualizza lo spazio di una postazione per mangiare, o il sofisticato appartamento di Marta Laudani a Roma (2002), spazio ottenuto per differenza e contrasto dalle diverse variazioni del bianco, si mescolano a grembi, antri, neo caverne comportamentali, schermi traforati, griglie cadute dal cielo, minimalismi imbarazzanti per povertà di pensiero che bastano solo a esaudire il desiderio di nulla del più convenzionale photo editor.

Si ha alla fine del percorso di cinquecento pagine un'idea piuttosto chiara di un capitolo del gusto che segna i nostri ultimi dieci anni e l'avallo del gusto ha sempre il potere rassicurante di farci appartenere a una qualche comunità. Ma allora, chissà veramente cos'è il progetto? Forse un'illuminazione o uno stato di trance che non lascia tracce di sé e di cui l'immagine dovrebbe essere l'unica forma di manifestazione mondana?