di Davide Bondi
Il filo e le tracce. Vero falso finto, Carlo Ginzburg,
Feltrinelli, Milano 2007
(pp. 340, € 25,00)
Per restituire il tratto unitario della
filosofia 'postmoderna' Ginzburg
rimanda ai suoi esiti radicalmente
scettici e relativistici. Ma lo scetticismo,
si sa, è – anche per la più classica delle
tradizioni filosofiche (quella hegeliana) –
un momento irrinunciabile della
costruzione del pensiero razionale.
Importanti filosofie del Novecento,
inoltre, come la semantica, il
pragmatismo e la linguistica generativa,
pur ammettendo la radice linguistica
della verità, hanno fatto fronte al radicale
relativismo dei postmoderni. E la storia?
È possibile che quest'angolo eccentrico
e malcerto del sapere raccolga una sfida
tanto ardua?
A scorrere il libro pubblicato da Ginzburg
a ridosso del suo rientro in Italia, dopo
l'esperienza d'insegnamento alla UC di
Los Angeles, pare di no. Il lettore,
piuttosto, ha la sensazione di aggirarsi
tra i sentieri di un labirinto costellato di
episodi isolati e frammenti rimossi di
storia della cultura. Qui, le Noctes
Atticae del grammatico latino Aulo Gellio
e gli elogi delle grottesche dell'architetto
Serlio quali fonti dell'asimmetria stilistica
di Montaigne; lì, resoconti di padri gesuiti
e di coraggiosi viaggiatori come tracce
dell'espropriazione simbolica degli
indigeni d'America; e poi, la metà
totalitaria e intollerante del più grande
degli illuministi letta attraverso un passo
di una missiva di Auerbach; e ancora,
intrecci e scambi tra racconti e narrazioni
storiche in scritti dimenticati o in un solo
nome. Ma di colpo, dai frammenti, si
aprono ampi spazi, i primi piani
s'alternano a vedute d'insieme, gli eventi
singolarissimi s'intrecciano con le forme
dello sviluppo. Questo incrocio
problematico di microstoria e morfologia
era già stato teorizzato da Ginzburg in
Miti emblemi spie (1986), ma con esiti
diversi. La microstoria, si legge adesso,
non si riduce a semplice indagine
topografica, visione ravvicinata dei
particolari. Più a fondo, l'immagine in
scala ridotta, il primo piano (close up),
aiutano a leggere la storia "in
contropelo" (Benjamin), facendo
emergere anomalie ed eccezioni dalle
'pieghe' e tra gli 'anfratti' dei documenti.
Gli atti di un tribunale inquisitorio del
Cinquecento che indaga sulle pratiche
eretiche di un mugnaio friulano rivelano
allora inaspettatamente rituali simili alle
esperienze estatiche degli sciamani,
lasciando riaffiorare un intero universo di
simboli sommersi e di credenze disperse
(I benandanti, 1966). Dall'anomalia,
come insegnava De Martino, si apre una
breccia per riconsiderare le forme e le
strutture storiche di lungo periodo. Per
questo, secondo Ginzburg solo un
nuovo paradigma evenemenziale, che
lasciati i grandi eventi politico-militari,
parta dall'"eccezione trascurabile" e dal
"caso non pertinente" può svelare forme
e serie dimenticate e – molto di più –
aprirsi a una razionalità capace
d'ascoltare la voce, le urla, dell'altro'.
Giunti qui lo studioso sottopone questi
risultati metodologici, per molti versi
affini alla revisione critica del metodo
storico di Braudel e Le Goff, a un esame
ulteriore. Lo fa quasi di passaggio,
sollevandosi d'improvviso da un'analisi
accuratissima di testi e contesti
'marginali' e centrando il cuore pulsante
del discorso sul metodo. La tesi della
storiografia come narrazione e retorica,
avanzata attorno agli anni Sessanta da
autori come Roland Barthes, Michel de
Certeau e Hayden White, ha contribuito
a demitizzare l'idea che la storia sia
semplice rispecchiamento di ciò che è
accaduto. Ma la componente linguistica
del discorso storico non elude la sua
verità. Essa consente piuttosto di
cogliere gli scambi e le ibridazioni di stili
narrativi tra storia e romanzi (Auerbach),
storia e fotografia (Kracauer), storia e
cinema, illustrati dall'autore attraverso
un gioco di rimandi con le opere di
Stendhal, Joyce, Proust, Fellini. Il filo
della storia tesse assieme vero, finto e
falso, come recita il sottotitolo del libro,
perché vero, finto e falso sono
intrinsecamente innervati di storicità. In
queste conclusioni, che paiono
sommuovere le certezze illuministiche
(ma che l'illuminismo fosse solo
professione di certezze è una pia
civetteria), risuona una lunga tradizione
di pensiero che da Vico, passando per la
grande tradizione degli Annales di Marc
Bloch e Lucien Febvre, arriva ai maestri
pisani dello stesso Ginzburg: Delio
Cantimori, Arsenio Frugoni e Arnaldo
Momigliano.
Eppure la questione filosofica di fondo
rimane aperta, l'interrogativo iniziale
inevaso. Quando il lettore cerchi il
termine medio che connette la 'realtà'
alla "narrazione storica" il terreno si fa
traballante. Ginzburg, in proposito,
ricorda con empatia uno scambio
epistolare in cui Renato Serra,
rivolgendosi a Croce, si definiva
ironicamente uno "schiavo della cosa in
sé". La narrazione non svincola lo storico
dalla realtà, perché la realtà è il limite
stesso contro cui i progetti
costruttivistici del ricercatore, i tropismi
della narrazione, cozzano o possono
cozzare. "Il desiderio, senza cui non si dà
ricerca" – si leggeva già in Rapporti di
forza (2000) – è sempre esposto al
rischio di essere smentito. Ma ciò, ci
sembra, non basta. Come sapeva bene
Croce senza una teoria organica della
conoscenza, che includa un'analisi
dell'inferenza storica in rapporto alle
altre forme dell'esperienza conoscitiva, è
difficile mantener saldo il concetto di
realtà.
Davide Bondi,
Storico della Filosofia
La storia degli altri
Il filo e le tracce. Vero falso finto, Carlo Ginzburg, Feltrinelli, Milano 2007 (pp. 340, € 25,00) Per restituire il tratto unitario della filosofia 'postmoderna' Ginzburg rimanda ai suoi esiti radicalmente scettici e relativistici. Ma lo scetticismo, si sa, è – anche per la più classica delle tradizioni filosofiche (quella hegeliana) – un momento irrinunciabile della costruzione del pensiero razionale.
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- 06 novembre 2007