di Giuliano Tedesco

Social Design Zine, vol. Uno, Andrea Rauch, Gianni Sinni, LCD Edizioni, Firenze 2005 (pp. 464, € 38,00)

Online dal 2003, sul sito aiap.it, Social Design Zine ha una forma intermedia tra la rivista elettronica e il blog. Come forum di discussione dei grafici italiani ha raggiunto il suo scopo, con un successo notevole: famosi o aspiranti tali, sono in molti a contribuire con articoli, commenti e interventi. Questo volume raccoglie l’esperienza compresa dall’avvio fino al giugno 2005. L’attenzione è concentrata sulla grafica e sulla comunicazione visiva ‘sociali’, con un criterio a maglie larghe: sostanzialmente, tutto ciò che non è legato a una committenza commerciale. Comunicazione di eventi sportivi e di mostre, pubblicistica politica, campagne di pubblica utilità; manga erotici e fumetti con il Papa per protagonista; divise militari, segnali stradali, bandiere. Lo sforzo rivolto a ricercare materiale proveniente da culture non occidentali ha portato buoni risultati. Un altro filone che evidenzia una cura particolare è quello legato alla scrittura e ai suoi rapporti con la comunicazione visiva, in una prospettiva ampia che non si limita agli aspetti formali della tipografia ma indaga implicazioni sociali e linguistiche legate a temi come le differenze etniche, la geopolitica, l’accessibilità dei testi per dislessici e ipovedenti (c’è tra l’altro un bel contributo di Erik Spiekermann).

La scelta dei lavori trattati è ricca, non scontata, e la decisione di trattare una gamma molto ampia di argomenti e formati si rivela fruttuosa. Il testo predomina; e qui cominciano i problemi. Le immagini, a cui resta meno di metà dello spazio complessivo, diventano spesso poco leggibili, e in alcuni casi del tutto incomprensibili (in molti dei manifesti riportati, per esempio, la parte testuale che completava quella visiva è riprodotta troppo in piccolo per essere decifrabile). Un editing e una selezione severa dei testi già pubblicati online avrebbero sicuramente giovato a quest’edizione. In molti articoli, la lettura critica del materiale visivo è poca; abbondano invece i commenti di merito su aspetti valoriali e politici, ispirati oltretutto a un’impostazione di “difesa dell’ortodossia” che tradisce una scarsa fiducia nel lettore. Anche tenendo conto del clima in cui sono stati pubblicati gli interventi originali, serve ripetere ogni due pagine che la guerra in Iraq era sbagliata? Prometteva molto meno, quindi molto di più, l’introduzione di Mario Piazza (direttore creativo di Domus, ha curato su queste pagine la pubblicazione di articoli di Social Design Zine nel 2004): “portare il tema dell’etica nella quotidianità del mestiere”, senza dogmatismo e senza indottrinamenti. Piazza segnala uno dei vizi storici della tradizione della grafica italiana di pubblica utilità, la vocazione compiaciuta al “minoritarismo delle intelligenze”; Social Design Zine non cade in quella trappola, ma soccombe a un altro rischio prevedibile, quello legato al gusto nostrano della politica come fenomeno a metà strada tra l’appartenenza tribale e l’appassionato dibattito calcistico da bar.

I designer hanno diritto come tutti a snocciolare certezze sui massimi sistemi, sulla globalizzazione e sulla guerra preventiva. Ma per la maggiore responsabilità che deriva loro dal maggior potere di comunicare, è da augurarsi che facciano uno sforzo extra per documentarsi approfonditamente e riflettere criticamente, senza accontentarsi del chiacchiericcio da arena televisiva; o saranno condannati a ragionare a suon di cliché come “Bush è un cowboy incapace di qualsiasi complessità” (informazione che Social Design Zine ci propone più di una volta). E non è che le questioni etiche, magari più circoscritte, che investono specificamente la professione, siano tutte banali e indegne di un ragionamento. L’appello alla vigilanza suonato dal manifesto First Things First del 1964, che segnalava i rischi del connubio tra professioni creative e esigenze promozionali del sistema delle merci, è ancora valido, e attuale più che mai — tanto che la sua riedizione del 2000 a cura di Adbusters non ha richiesto grandi stravolgimenti.

Nel nostro paese il rischio del “tradimento dei grafici” è tema meno scottante solo in quanto la committenza commerciale affida loro meno peso e meno potere (viceversa, la centralità italiana della committenza istituzionale trova riscontro nell’attenzione di Social Design Zine alle storture dei concorsi pubblici); ma nella misura in cui ai designer viene richiesto di partecipare al sistema commerciale — ed è un coinvolgimento destinato in ogni caso a crescere nel tempo — la riflessione etica, come preoccupazione condivisa da un’intera categoria professionale, è ancora a uno stadio insufficiente. Oltre a questo, è prioritario per chiunque operi nella grafica e nella pubblicità imparare a leggere e decostruire con lucidità sempre maggiore i significati e le implicazioni della progettazione visiva (la propria e l’altrui), con un’attenzione a come evolvono i rapporti tra linguaggio visivo, cornici della comunicazione, contesti sociali. Per un designer questa competenza ricade anche in senso stretto nell’ambito delle capacità professionali, ma richiede una cultura semiotica e politica, una capacità di comprensione dei fatti sociali e delle strategie dei media, che vanno ben al di là del know-how tecnico della progettazione. Solo alcuni degli articoli qui pubblicati contribuiscono a questo processo di apprendimento. La scelta di proporre con insistenza alcuni luoghi del pensare comune politico (l’antiamericanismo non esiste, è solo un’accusa di comodo scagliata contro chiunque critichi la dottrina della guerra preventiva; l’antisemitismo esiste, ma oggi se ne parla troppo e a sproposito; e così via) compiacerà i già convertiti e irriterà altri; ma il problema non sta tanto nei contenuti, né semplicemente nel fatto che le affermazioni apodittiche prevalgono sulle riflessioni argomentate, quanto nell’occasione sprecata. Social Design Zine è un buon sourcebook, ricco di stimoli importanti e sicuramente da raccomandare per la completezza e la varietà dei progetti raccolti, a cui è mancato solo un apparato critico all’altezza; la capacità di dare più spazio ad articoli di taglio analitico e informativo, come quello sull’uso politico della cartografia, e frenare invece gli ‘effluvi’ evocati, a proposito della forma-blog in generale, da Steven Heller nell’eccellente intervento di apertura.

Giuliano Tedesco Giornalista