Lo stesso vecchio futuro

La Future House di Matti Suuronen rappresenta un unicum nel panorama della ricerca sperimentale sulla abitazione-tipo della “città del futuro” del ventennio a cavallo tra gli anni ’50 e ’70.

Futuro. Tomorrow’s House from Yesterday, a cura di M. Home e M. Taanila, Desura, 2002

La “Futuro House”, disegnata dall’architetto finlandese Matti Suuronen, fu realizzata per la prima volta nel 1968. La casa, che si rifaceva all’idea di disco volante secondo l’immaginario collettivo del tempo, per la compatta forma ellittica percorsa al centro da una ‘cintura’ di finestre a oblò, per l’accesso attraverso una scala estraibile e l’appoggio su sottili sostegni metallici, ebbe grande popolarità fino ai primi anni ’70, e fu costruita, anche se in un numero limitato di esemplari, oltre che in Finlandia nei paesi più diversi: dagli Stati Uniti al Giappone, dall’Argentina all’Australia, dalla Nuova Zelanda al Sudafrica, all’Unione Sovietica e tutti gli stati europei. Presentata in quegli anni in numerose esposizioni come esempio e modello di casa, o comunque contenitore spaziale di funzioni, per le esigenze più diverse della vita di città o per luoghi di vacanza, la Futuro ebbe invece un destino diverso, non tanto quello di un oggetto d’uso/abitazione (che non andò al di là del fattore di novità dei primi anni) quanto quello di venire progressivamente adottata dal mondo dell’arte come icona della sperimentazione pop-tecnologica di quegli anni.

La casa fa ora parte della collezione permanente del Centraal Museum di Utrecht, e il filmato che ne illustra la ‘storia’ (Futuro. A New Stance for Tomorrow, 1998) è stato di recente presentato anche alla mostra “Les Années Pop” del Centre Pompidou nel 2001 e in Danimarca a “Vision and Reality – Conceptions of the 20th Century” (Louisiana Museum, 2001-2002). È proprio dalla realizzazione del filmato che è nata l’occasione del volume curato da Home e Taanila (cui si deve anche la regia del documentario), ove si trovano alcuni saggi critici oltre a un’ampia documentazione fotografica e a numerosi brani del filmato riprodotti in un DVD allegato.

I due curatori prevalentemente illustrano i diversi stadi di elaborazione del progetto e la rapida diffusione del nuovo prototipo di abitazione, la cui popolarità fu paradossalmente innescata proprio dall’accoglienza polemica da parte dell’establishment finlandese, ma introducono anche la questione a cui i saggi seguenti cercano di dare risposta e cioè quella del successivo, altrettanto rapido declino delle funzioni per cui era stata progettata, e della sopravvivenza invece dell’immagine della casa nella pubblicistica e la sua conseguente riscoperta da parte del mondo dell’arte.

La Futuro infatti è vissuta fino ad ora più come immagine che come oggetto, più nella rappresentazione che nella realtà. Rimane, per dirla con Roland Barthes, un “artefatto culturale mitico”, uno spazio che tutti hanno abitato virtualmente attraverso la sua esposizione mediatica.

La casa di Suuronen rappresenta un unicum nel panorama della ricerca sperimentale sulla abitazione-tipo della “città del futuro” del ventennio a cavallo tra gli anni ’50 e ’70 perché incarna alcune delle caratteristiche presenti tanto nell’utopia tecnologica, per esempio di Buckminster Fuller, di Frei Otto o dei Metabolisti giapponesi, quanto in quella proto-radicale, soprattutto di Cedric Price e degli Archigram. Dai primi è infatti mediata la fiducia nell’uso dei nuovi materiali e nelle loro possibilità di sfruttamento, di cui sono conseguenza tanto la determinazione d’uso quanto la forma che, indotta da queste necessità, spesso assume valori simbolici di archetipo; altrettanto evidente è poi il riferimento concettuale ai molti progetti di case ‘capsula’ degli Archigram, dal ‘Capsule’ di Warren Chalk (1964) al “Living Pod” di David Greene (1966), al ‘Cushicle’ di Mike Webb (1966) che progressivamente, da prototipi pensati soprattutto per lo studio di nuovi metodi di produzione-assemblaggio-costruzione si trasformeranno, diminuiti di peso e dimensioni ma ancor più sofisticati nei dettagli tecnici, in abitazioni facilmente trasportabili che prefigurano quelle caratteristiche di nomadismo che sempre più saranno necessarie nella città globale dei media.

Alla Futuro tuttavia mancano gli aspetti più ‘nobili’ delle sperimentazioni a cui si ispira: da un lato il rigore scientifico delle utopie strutturaliste, che sconfinano nell’utopia quando si applicano alla macrodimensione ma che comunque, come estrapolazioni basate sul calcolo e sull’osservazione di elementi naturali, sono utopiche solo per la futuribile proposta d’uso, dall’altro la forma di progetto/strumento di confronto con il sociale dei protoradicali, che prescinde dalla funzione reale attraverso l’ironica dichiarazione di una funzione ‘teorica’.

Abitazione invece progettata su commissione, e realizzata in vista di una produzione di massa, la Futuro House non sopravvisse alla realtà della crisi energetica e agli alti costi di produzione. Rimane però la sua immagine, proprio perché simbolo di alcune commistioni e ambiguità irrisolte, perché “la sua forma non deriva dalla funzione ma dalla fantasia, e in maniera particolarmente suggestiva. Perché la sua forma non è ‘eterna’ ma ‘effimera’. Perché il suo spazio è sia ‘immaginato’ che ‘costruito’.”

Gianni Pettena, docente di Storia dell’architettura all’Università di Firenze
La “Futuro House” del 1957, realizzata dalla Monsanto Chemical Company
La “Futuro House” del 1957, realizzata dalla Monsanto Chemical Company

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