Cini Boeri (1924-2020) è stata una protagonista del design e dell’architettura italiana del ‘900, oltre che una delle pochissime figure femminili, con Gae Aulenti, ad ottenere un riconoscimento abbastanza tempestivo del suo contributo al mondo del progetto. Con altre donne dell’architettura di una generazione a lei vicina – Anna Castelli Ferrieri, Franca Helg, Nanda Vigo, tra le altre – condivide il suo posizionamento a cavallo tra il disegno del prodotto industriale, la progettazione degli interni e quella dell’edificio, una specificità legata anche al carattere maggiormente inclusivo del settore del design rispetto a quello più spiccatamente maschilista della costruzione.
Boeri studia al Politecnico di Milano, dove si laurea in Architettura nel 1951, e poi si forma nello studio di Marco Zanuso, occupandosi spesso proprio di interni e di arredi, ad esempio per un Asilo a Gubbio del 1960. Nata Maria Cristina Mariani Dameno, conserva il cognome Boeri dopo il breve matrimonio con il noto neurologo Renato Boeri, padre dei suoi tre figli Sandro, giornalista, Tito, economista, e Stefano Boeri, architetto. Nel 1963 apre lo studio di Milano che condurrà per quasi sei decenni, fino alla sua scomparsa.
Boeri attraversa da protagonista i decenni d’oro del design italiano, tra gli anni ’50 e ’70. Si dimostra profondamente partecipe dello zeitgeist dell’epoca, che riesce a declinare attraverso alcune personalissime e geniali intuizioni. Per Boeri, come per Achille Castiglioni, Vico Magistretti e altri grandi del tempo, il compito del designer è la democratizzazione di una migliore qualità della vita, attraverso la reinvenzione e il perfezionamento degli oggetti di uso quotidiano. È una visione anti-elitaria della disciplina: il progetto-prodotto non è un lusso che in pochi possono possedere, ma una comodità indispensabile, da utilizzare nella vita moderna di un pubblico il più possibile allargato.
È all’interno di questa cornice che devono essere inseriti i suoi oggetti più sorprendenti, ad esempio le molte sedute messe in commercio da Arflex: le poltrone e i divani “Bobo” (1967), con le loro quattro misure pensate per utilizzatori più o meno agili; il sistema “Strip” (1972), infinitamente ricomponibile a seconda delle esigenze degli utenti e premiato anche con il Compasso d’oro; e ancora l’insuperato “Serpentone” (1967), divano che poteva essere comprato letteralmente “al metro” e poi arrotolato o srotolato a piacere in casa propria. Il “Serpentone” rappresenta al meglio la capacità di Boeri di conciliare innovazione tecnica – si tratta di un monoblocco di schiuma poliuretanica, senza anima e senza rivestimento – e riflessione su possibili spazi e forme della convivialità alternativi a quelli tradizionali.
Si può ritrovare la stessa visionarietà e lo stesso piacere nella sperimentazione sui materiali in un progetto più tardo, non un oggetto per tutti ma quasi una boutade figlia di un contesto culturale e commerciale ormai mutato. L’affascinante “Ghost” per FIAM, del 1987, è una poltrona completamente trasparente costituita da un’unica lastra di vetro incurvata, solida piattaforma costruita nel più fragile dei materiali. Oltre alle tantissime sedute, la produzione di Boeri spazia dai mobili da ufficio, ad esempio per Rosenthal e per Knoll, alle lampade, anche per Arteluce e Stilnovo, senza dimenticare una trovata geniale della fine degli anni ’60: nel 1967, la valigia “Partner” da lei disegnata per Franzi è la prima al mondo a spostarsi su rotelle.
I migliori progetti di architettura di Boeri sono case. Nel 1967, sulle coste ancora pressoché selvagge dell’isola della Maddalena realizza per la sua famiglia la Casa Bunker, ispirata ai fortini sabaudi del litorale sardo. Oggetto enigmatico, al tempo stesso mimetizzato nel suo paesaggio e totalmente alieno rispetto ad esso, il progetto di Boeri è un’architettura per le vacanze non solo fattualmente, ma anche perché attraverso la sua posizione e la sua configurazione quasi primitiva riesce a suggerire ai suoi abitanti modi di vita diversi da quelli della routine quotidiana. La Casa nel Bosco di Osmate, Varese (1969) denuncia una simile tensione verso la semplificazione dei volumi, che acquistano una potenza quasi brutalista grazie alle loro facciate in cemento a vista. Anche ad Osmate la natura esistente è un dato cruciale per determinare le caratteristiche dell’architettura, che articola la sua pianta in modo tale da ridurre al minimo l’abbattimento delle betulle tra cui sorge.
Il progetto domestico, esposto alla Triennale di Milano nel 1986, è la prova del livello di maturazione della riflessione di Boeri sugli spazi della casa, intesa al contempo come luogo della condivisione ma anche della solitudine scelta e della responsabilità reciproca. Lo studio presenta un’ipotesi di articolazione di un’abitazione per una coppia, dove agli ambienti pensati per i momenti di convivialità se ne affiancano altri riservati alla privacy di ciascun partner.
A partire dalla metà degli anni ’80 e più intensamente dagli anni ’90, la produzione di Boeri si dirada in termini quantitativi e declina in parte sul piano della qualità. I progetti di architettura più recenti, come la Casa La Sbandata alla Maddalena (2004) e l’Appartamento su tre livelli a Milano (2008), testimoniano di un’urgenza sperimentale ancora viva e brillante, ma anche della difficoltà di esprimerla in forme costruite pienamente convincenti. Sono considerazioni necessarie per inquadrare lucidamente il percorso di Boeri, ma che non tolgono nulla al valore assoluto della sua opera. Che, per altro, deve ancora essere riscoperta in alcuni suoi episodi meno noti e più colti – su tutti, i raffinanti interventi sul costruito storico di Ghilarza, piccola cittadina sarda, a cavallo tra gli anni ’70 e ’80.