Abitare lo spazio mediato

Prestando attenzione ai modelli mutevoli di spazio mediato all’inizio del XXI secolo, gli architetti possono attingere ai media studies per scoprire nuove maniere di considerare come la mediazione incida sul modo in cui viviamo.

Questo articolo è stato pubblicato in origine, in versione integrale, su Domus 977 / febbraio 2014

Delineando la formazione di quattro diversi tipi di spazio mediato, proveremo a suggerire in che modo le visioni concettuali occidentali di spazio costruito e spazio architettonico si siano trasformate negli ultimi due secoli, interrogandoci su come l’attuale modello di spazio mediato incida sul nostro modo di vivere. Un modello di spazio politico e sociale conforme a natura accorda la rappresentazione bidimensionale con lo spazio abitato tridimensionale almeno dalla definizione geometrica della prospettiva lineare nel Quattrocento.

Non è certo un caso che Leon Battista Alberti, a cui si deve la sistematizzazione della prospettiva a punto unico in Occidente, fosse un architetto. La rappresentazione prospettica a punto unico può non solo riprodurre un’immagine precisa dello spazio tridimensionale naturale tramite un disegno o un dipinto, ma, applicata al disegno architettonico, può diventare uno schema per la produzione di uno spazio tridimensionale a partire da una rappresentazione su due dimensioni. Sembra perciò del tutto appropriato che un architetto abbia sviluppato un modello di rappresentazione prospettica nel quale il piano dell’immagine era visto in base al modello della finestra, attraverso la quale l’artista presumibilmente guardava dal suo studio o dalla sua abitazione.

Il velo dell’Alberti, una tecnica rappresentata nell’omonima incisione di Albrecht Dürer, separa lo spettatore dallo spazio rappresentato lasciando immaginare allo stesso tempo una continuità tra i due spazi. L’idea dell’Alberti riguardo al piano dell’immagine come finestra suggerisce tale separazione, ricordandoci altresì che tra noi e lo spazio rappresentato c’è continuità – l’artista nell’incisione di Dürer, per esempio, può (e noi presumiamo che lo abbia fatto e lo faccia) aggirare la finestra/griglia prospettica per interagire con la modella.

A differenza della realtà virtuale del cyberspazio-simulacro, lo spazio virtuale di oggi è reale

Il regime di riproduzione meccanica, che ha preso slancio tanto con il proliferare della fotografia a metà Ottocento quanto dalle forme iniziali di cinematografia nei primi decenni del Novecento, è servito ad automatizzare e a rendere più democratica la mediazione tecnica della rappresentazione prospettica. Il cinema e altri mass media hanno concettualizzato lo spazio costruito quale spazio abitabile dalle masse e orientato verso una proiezione mediata sullo schermo (o, nel caso del fascismo, uno spazio abitato da un unico leader autoritario).

Nel classico spazio cinematografico, spettatore e mondo coesistono in una condizione di separazione forzata. Per quanto chi guarda possa venire assorbito sul piano emotivo e immaginativo dal mondo proiettato sullo schermo, l’organizzazione spaziale della sala produce una separazione forzata: da una parte lo schermo, con il film e il mondo rappresentato, dall’altra il pubblico in poltrona.

Questo modello cinematografico di spazio tridimensionale mediato è stato rimesso in discussione negli ultimi decenni del Ventesimo secolo dall’invenzione del cyberspazio – emerso dai primordi dell’informatica – e da quella della cibernetica a metà del Ventesimo secolo, momento che corrispondeva peraltro all’apice del classico stile hollywoodiano. Il cyberspazio – una “allucinazione consensuale”, una “rappresentazione grafica di dati astratti dalla banca di ogni computer presente nel sistema umano”, secondo la fortunata definizione di William Gibson – mirava a simulare il mondo dell’informatica piuttosto che rappresentare graficamente quello naturale o costruito. I fautori del cyberspazio propugnavano un modello spaziale interconnesso, nel quale lo schermo del computer non tornava a mediare una realtà esterna preesistente ma simulava una realtà diversa attraverso tecnologie matematiche di prospettiva lineare.

Alla fine del Ventesimo secolo, tecnologie come la realtà virtuale o il fantascientifico jacking in di Gibson – un collegamento diretto con l’informazione o con lo spazio-dati – non immaginano una rappresentazione mimetica del nostro mondo o la riproduzione di un mondo ‘altrove’, ma uno spazio interconnesso incorporeo, fatto di flussi di dati e architettura informatica. In questo modello di spazio mediato, l’utente informatico rimane separato dal mondo sullo schermo ma, diversamente da quanto accade con la pittura, con la fotografia o con il cinema, è rappresentato da un avatar sullo spazio del monitor. Si tratti semplicemente del cursore dei primi spazi a base testuale come i MUD o i MOO, di identità online su liste di server o chatroom, oppure dei nostri avatar grafici per video e videogiochi (o, più tardi, per mondi in 3D come Second Life), la barriera che separa lo spazio mediato dello schermo e il meat-space, spazio in carne e ossa di chi sta al computer, ha incominciato a sgretolarsi e l’utilizzatore può interagire con il cyberspazio per mezzo dell’avatar.

La trasformazione dello spazio corporeo in spazio mediato fa di tutti noi oggetti di una pre-mediazione da parte dello Stato e delle multinazionali

Questa rappresentazione storica è stata rimessa nuovamente in discussione sotto la nostra attuale formazione di spazio mediato, nella quale il modello di spazio-schermo quale finestra su un mondo incorporeo di informazioni e dati situati altrove sta cedendo il passo a un modello di spazio ‘pre-mediato’ che è innanzitutto fisico e localizzato, distribuito attraverso reti di comunicazione e informazione per mezzo di una serie di congegni mediatici personali, pubblici e istituzionali quali smartphone, iPad, laptop, sistemi GPS, sportelli automatizzati o PC.

Oggi, lo spazio mediato non è né naturale o meccanico, né pensabile come simulacro, ma virtuale – distribuito attraverso nodi e collegamenti superconnessi pre-mediati piuttosto che situati in uno spazio tridimensionale omogeneo e continuo. A differenza della realtà virtuale del cyberspazio-simulacro, lo spazio virtuale di oggi è reale. Le tecnologie superconnesse, oltre a diventare sempre più sociali e mobili, sono inserite in oggetti coi quali interagiamo e luoghi in cui ci muoviamo e abitiamo. Questa nuova mediazione del mondo quale spazio networked, superconnesso, colpisce particolarmente in ciò che chiamiamo l’“internet delle cose”, termine riferito a un mondo nel quale gli oggetti (sia naturali sia prodotti dall’uomo) sono etichettati con la tecnologia RIFD (identificazione tramite frequenze radio), che associa il codice a barre o i suoi equivalenti miniaturizzati a tecnologie GPS per identificare particolari oggetti e tracciarne la posizione durante i loro spostamenti attraverso il pianeta.

Nell’“internet delle cose”, lo spazio mediato è finalmente diventato una cosa sola con lo spazio tridimensionale naturale o costruito. Il mondo dei social media e l’“internet delle cose”, diversamente da quello della rappresentazione prospettica, della riproduzione meccanica o del cyberspazio, sono spazi d’interazione con luoghi e persone non fisicamente presenti, che frequentiamo ormai tanto comunemente quanto quelli formati da luoghi o persone fisiche. Piuttosto di interazioni sociali che hanno luogo con altre persone situate all’interno del nostro spazio fisico, tali scambi coinvolgono “entità remote” attraverso tecnologie mediatiche legate al nostro spazio fisico, a volte persino (nel caso di congegni da indossare come Google Glass) allo spazio del nostro corpo.

Così, quando mi sposto da casa al mio solito caffè o da lì al mio ufficio in facoltà, le transazioni che compio in ciascun luogo mi aiutano a marcare il percorso, o a fornire i dati con cui posso essere rintracciato nel tempo e nello spazio. E dato che la nostra consapevolezza è aumentata sulla scorta delle recenti rivelazioni di Edward Snowden sul livello di sorveglianza e spionaggio a cui gli Stati Uniti ci sottopongono, la trasformazione dello spazio corporeo in spazio mediato fa di tutti noi oggetti di una pre-mediazione da parte dello Stato e delle multinazionali.  

Richard Grusin (1953) è direttore del Center for 21st Century Studies e professore ordinario di Inglese alla University of Wisconsin-Milwaukee ed è autore di numerosi articoli e saggi. È attualmente impegnato nel progetto “Radical Mediation”.

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