Kenneth Frampton

Verso un’architettura agonistica

Con un lungo manifesto, intenso e accorato, il critico britannico Kenneth Frampton rivolge agli architetti, ma non solo, un appello etico.

È una vera sfortuna che la società umana debba affrontare problemi tanto scottanti proprio quando è diventato materialmente impossibile far passare la minima obiezione al linguaggio dei beni di consumo; proprio quando il potere – in modo del tutto appropriato, facendosi esso scudo con lo spettacolo contro ogni reazione alle sue progressive e deliranti decisioni e giustificazioni – è convinto di non avere più bisogno di pensare; e in effetti può permettersi di non pensare più.

Questo articolo è stato pubblicato su 972, settembre 2013    

1. Lo stato delle cose Das Spiel ist aus (Il gioco è finito) [2] è il titolo di un poema della poetessa austriaca Ingeborg Bachmann. C’è da pensare che il riferimento fosse al progetto dell’Illuminismo europeo, alla visione di Schiller, Goethe, Hegel, Schinkel, Marx e Freud. In una parola, all’incompiuto progetto moderno di Jürgen Habermas, che a quanto pare non verrà mai realizzato, neppure in parte. Non perché ci manchino le risorse e la tecnologia per farlo, quanto piuttosto perché siamo incapaci di raccogliere la volontà politica necessaria per effettuare un cambiamento decisivo, perché siamo completamente accecati dalla società dello spettacolo e, perciò, resi impotenti come corpo politico dalla repressione di modi d’essere alternativi, per mezzo dei quali potremmo essere ancora in grado di salvarci. L’elegiaca visione di une ville radieuse espressa da Le Corbusier nel 1934, la sua proiezione erotica di Luxe, calme et volupté di Charles Baudelaire non si materializzeranno mai, non perché ci manchino gli ingredienti essenziali, come chiarisce abbondantemente la fasulla città istantanea di Dubai, fondata sulle ricchezze petrolifere, ma perché la specie è stata fino a questo momento incapace di effettuare il salto etico e politico necessario a generare una società in grado di vivere all’interno del radioso regno ecologico dell’omeostasi. Invece, sembriamo essere accecati dalla missione autodistruttiva di portare il mondo allo sfacelo, e noi con esso, quanto più rapidamente possibile. Il potere egemonico dell’Occidente ‘universale’ è tale che non sembra esserci alcun modello alternativo al progetto dissoluto di americanizzare il mondo intero; l’illimitato sogno consumistico ha ammaliato indistintamente tutti con il suo simbolo e strumento: l’automobile. È questo marchingegno, non c’è dubbio, ad aver dimostrato di essere l’invenzione apocalittica fondamentale del XX secolo, con il risultato che il mondo oggi brucia in poche settimane il quantitativo di petrolio che a metà del secolo scorso consumava in un anno. Questo è il cuore del vaso di Pandora, dal quale sgorgano in modo manifesto molte altre cose ugualmente deleterie, per quanto si esiti a riconoscerne l’effetto cumulativo. Perciò si potrebbe prontamente affermare che la proprietà massificata dell’automobile è un singolo elemento da cui molto altro consegue: l’avvento del riscaldamento globale; lo scioglimento delle calotte polari; il fenomeno delle condizioni meteorologiche estreme; l’innalzamento del livello dei mari – che si stima raggiungerà il metro entro la fine del secolo –; l’inquinamento degli oceani e la distruzione delle foreste pluviali nella nostra dissennata ricerca di riserve petrolifere; la suburbanizzazione del pianeta, a cui faranno seguito senza dubbio il suo finale abbandono e la sua desertificazione; l’insopportabile inquinamento atmosferico delle megalopoli; la sottile corruzione del processo democratico tanto in termini di gestione governativa quanto di applicazione della giustizia. Tutte queste aporie si manifestano allo stesso modo a livello nazionale e internazionale. Molto di tutto ciò va sicuramente ricondotto al potere sconfinato delle grandi multinazionali ed è accompagnato, a livello internazionale, dall’implementazione di un sistema elettronico di sorveglianza e dal concomitante controllo della pratica del giornalismo investigativo. Ho in mente – inutile dirlo – le multinazionali del petrolio, della chimica e dell’industria farmaceutica; l’industrializzazione dell’agricoltura [3] e la modificazione genetica del cibo [4]; il massiccio imporsi della grande distribuzione – un elemento, questo, che porta alla scomparsa del commercio al dettaglio e della città di provincia quale potenziale, tuttora esistente, per lo sviluppo di una cultura locale e per la democrazia diretta: in breve, la massimizzazione a livello globale del profitto fine a se stessa, senza alcun riguardo nei confronti dei costi per la biodiversità [5], o persino per la sopravvivenza dell’homo sapiens, l’estinzione del quale è ora, per la prima volta, chiaramente prevedibile. Nessuno, forse, ha scritto in modo più sintetico sul nostro attuale e paradossale stato di paralisi iperattiva di quanto abbia fatto Jean Baudrillard, che a un seminario intitolato “Looking Back at the End of the World” (Uno sguardo retrospettivo sulla fine del mondo), tenutosi alla Columbia University di New York nel 1986, ha sottolineato come: Non ci troviamo più in una fase di crescita: siamo in una condizione di eccesso. Viviamo in una società di escrescenze, a indicare ciò che si sviluppa incessantemente senza essere misurabile in relazione ai suoi stessi obiettivi. La miscela sta sfuggendo di mano, incautamente priva di corrispondenza con i suoi stessi obiettivi, mentre il suo impatto si moltiplica e le cause si disintegrano [] Questa forma di sazietà non ha nulla a che fare con l’eccesso di cui parlava Bataille e che tutte le società sono riuscite a produrre e a distruggere esaurendosi in forme inutili e dispendiose. Non sappiamo più come poter far uso di tutte le cose che abbiamo accumulato, non sappiamo nemmeno più a che cosa servono [] Ogni fattore di accelerazione e concentrazione è come un fattore che ci avvicina al punto di inerzia [6].   Due notizie recenti meritano in questo senso la nostra attenzione. La prima è la decisione presa dall’élite dei tecnocrati cinesi di trasferire in modo coatto, nei prossimi dieci anni, 250 milioni di abitanti delle zone rurali in tessuti urbani ad alta densità, formati da condomini. Questo ironico rovesciamento dei precetti del Manifesto del Partito comunista del 1848 ha verosimilmente lo scopo di creare una base consumistica sulla quale fondare l’espansione di un’economia interna cinese paragonabile all’attuale ciclo di produzione-consumo degli Stati Uniti. La seconda notizia concerne la decisione, ugualmente draconiana, presa dal presidente dell’Ecuador, Rafael Correa, di abbandonare, per mancanza d’impegno internazionale, il suo tentativo di raccogliere 3,6 miliardi di dollari per mezzo di un fondo fiduciario sostenuto dalle Nazioni Unite, allo scopo di preservare circa 10.000 km2 di foresta vergine dalle devastazioni della trivellazione petrolifera. Questi fatti, apparentemente privi di un nesso, sono collegati in modo simbiotico tramite il recente impegno da parte della repubblica cinese a consumare 40.000 barili al giorno di petrolio ecuadoregno [7].  

2. A che cosa servono gli architetti in un’epoca d’indigenza? Questa parafrasi della domanda di Friedrich Hölderlin potrebbe essere applicata con altrettanta facilità all’architettura contemporanea, dato che la maggior parte della pratica di oggi è globale piuttosto che locale, con archi-star che viaggiano senza sosta per il mondo, al seguito di un flusso di capitali altrettanto dinamico. Su questo punto possiamo testimoniare la ricettività della vox populi verso l’impatto mediatico della forma spettacolare, dovuto alla capacità dell’archi-star di creare immagini inedite e sensazionali ma anche alla loro competenza organizzativa e capacità tecniche. Da ciò l’avvento del cosiddetto effetto Bilbao, in base al quale città e istituzioni competono allo scopo di sponsorizzare un edificio progettato da un nome-marchio ben riconoscibile. In anni recenti, questo fenomeno è stato particolarmente evidente a Pechino, dove diverse star dell’architettura si sono date battaglia nel progettare un edificio spettacolare dopo l’altro. Ecco, allora, il sensazionale stadio olimpico di Herzog & de Meuron del 2008, seguito dall’ugualmente clamorosa sede della CCTV, una torre alta 230 m firmata, praticamente negli stessi giorni, da Rem Koolhaas. Ci dicono che quest’ultima è destinata a mandare in onda qualcosa come 250 canali televisivi “di spettacolo” al giorno per un pubblico di un miliardo di persone. Dato l’estetismo sensazionale cercato da entrambi i progetti, non è sicuramente un caso che ambedue abbiano fatto un uso dell’acciaio totalmente irrazionale e strutturalmente antieconomico. L’atipico grattacielo ‘catatonico’ di Koolhaas è sintomatico di un mondo nel quale le città rivaleggiano tra loro per il dubbio onore di sponsorizzare l’edificio più alto del mondo, titolo detenuto, per ora, da Dubai, che, per quanto si possa a malapena definire una città, vanta ciò nonostante i 160 piani della Burj Khalifa. In questa vena, la ‘manhattanizzazione’ del mondo procede senza rimedio, mentre ogni nuovo grattacielo – non importa dove si trovi – diventa poco più dell’ennesimo codice astratto a testimonianza della presenza della speculazione globale. “Penso che oltre una certa altezza l’architettura non sia più possibile”, ha detto Tadao Ando qualche tempo fa. Nel frattempo, qualsiasi tipo di schema d’insediamento razionale ed ecologicamente coerente continua a eluderci, nonostante tutti gli sforzi fatti negli anni Sessanta e Settanta [8] per giungere a modelli di densità generati da edifici di bassa e media altezza come alternativa per resistere all’illimitata espansione di un tessuto urbano trasformato in bene di consumo, aree a bassa densità tuttora servite da reti viarie sovvenzionate in modo tale da rendere qualsiasi tipo di transito pubblico economicamente insostenibile. Qua e là compaiono eccezioni a questo modello: le corsie dedicate ai bus di Curitiba in Brasile; i treni ad alta velocità del Giappone dell’Europa continentale; il lirismo tecnologico della veneranda rete tramviaria di Zurigo. Ma in genere prevale l’automobile. In più, dopo le spettacolari caricature di Milton Keynes e Marne-la-Vallée – il non-luogo, regno urbano par excellence – abbiamo virtualmente abbandonato l’idea di progettare nuove città. Come Mies van der Rohe avrebbe detto nei primi anni Cinquanta: “In realtà non ci sono più città. Tutto va avanti come una foresta. È questo il motivo per cui non possiamo più avere vecchie città; città pianificate e tutto il resto sono spariti per sempre. Dovremmo pensare ai mezzi di cui disponiamo per vivere nella giungla e magari sistemarcisi bene”. Una tale rassegnazione non sarebbe stata condivisa dal celebre architetto portoghese Álvaro Siza, che mi ha detto una ventina d’anni fa: “Ho molti progetti ma non sono contento. Come si può essere contenti quando l’Europa non ha un progetto?”. Nel 1983, a seguito del saggio di Alex Tzonis e Liane Lefaivre The Grid and the Pathway del 1981 e ispirato dalla tesi postcoloniale di Paul Ricœur che distingue tra “Civilizzazione universale e culture nazionali” [9], elaborai il concetto Tzonis-Lefaivre del regionalismo critico nel mio Six Points for an Architecture of Resistance, testo inserito nell’antologia di saggi sulla cultura postmoderna curata da Hal Foster e pubblicata con il titolo di The Anti-Aesthetic [10]. Otto anni più tardi, Fredric Jameson, in una brillante panoramica sui vari stratagemmi architettonici postmoderni intitolata The Seeds of Time, mise fine a ogni illusione che potevamo ancora accarezzare riguardo alla possibilità geopolitica di una cultura resistente a livello regionale, nonostante il fatto che fosse proprio questa promessa mitica a esercitare un’influenza su molti architetti periferici. Nella sua articolata critica della mia ingenua posizione di trent’anni fa, Jameson scriveva:   La proposta concettuale di Frampton, tuttavia, non è di natura interna ma geopolitica: si adopera per mobilizzare un pluralismo di stili ‘regionali’, [] mirando a resistere alla standardizzazione di quello che da qui in avanti sarà un tardo capitalismo e corporativismo globale, il cui ‘vernacolare’ è onnipresente tanto quanto il suo potere sulle decisioni locali e, certamente dopo la fine della guerra fredda, sulle amministrazioni locali così come sui singoli Stati nazionali. È perciò politicamente importante [] enfatizzare fino a che livello il concetto di regionalismo critico sia necessariamente allegorico. Ciò di cui i singoli edifici sono da qui in avanti parte non è più una visione unitaria di pianificazione urbana [] quanto piuttosto, nel complesso, una distinta cultura regionale, della quale il singolo edificio diventa una metonimia [11].   Nonostante la sensibilità della valutazione che Jameson fa della mia interpretazione della tesi del regionalismo critico, egli tuttavia giunge alla precipitosa conclusione marxista che qualsiasi traccia di alterità e identità regionale abbia una delicata, limitata capacità di resistere alla sottile e spettacolare dominazione del potere delle multinazionali. Rimane comunque il fatto che le differenze regionali continuano a essere coltivate, soprattutto, a livello della cucina e della viticultura locale, per quanto storicamente tali differenze siano sempre rimaste aperte a sottili forme di ibridazione. Anche se non abbiamo altra scelta che quella di prevenire qualsiasi ingenua congettura in tema di sovranità locale, la forma tettonica anti-egemonica regionale sicuramente mantiene ancora a livello popolare la capacità di resistere alle forme variamente riduttive del postmodernismo stilistico con il quale il potere egemonico del centro preferisce circondarsi [12]. Così, a mio avviso, una promessa liberatoria per il futuro risiede all’interno di un’architettura agonistica della periferia, da opporre al sottile conformismo acritico del gusto imperante che emana dal centro. Ho tentato di suggerire tutto ciò nella mia marginale partecipazione alla Biennale di Venezia dello scorso anno: nella mia selezione “Five North American Architects”, esposta all’Arsenale, ho tentato di affermare la presenza in Nord America di una ‘alterità’ contro-egemonica coltivata principalmente alla periferia di un vasto continente, in contrapposizione con le false differenze pluralisticamente ed esteticamente riduttive, sottilmente sponsorizzate dal potere egemonico [13]. Uno degli aspetti più sorprendenti e gratificanti della pratica degli ultimi due decenni è stato il modo in cui architetti di valore del cosiddetto Primo mondo si sono trovati di tanto in tanto a costruire nel Terzo mondo. Ciò, in sé, può non essere poi così insolito, ma quel che si è rivelato unico in tempi recenti sono stati il rigore e la sensibilità eccezionalmente raffinati che sono stati invariabilmente applicati alla situazione regionale e, a volte, aborigena, così che si ha la sorprendente sensazione che il risultato non avrebbe potuto essere ottenuto in modo più pratico e poetico se fosse stato affidato ai locali, ad architetti radicati nel territorio piuttosto che estranei. Uno dei primi esempi di lavoro di questo genere è la Seabird Island School di John e Patricia Patkau, costruita per una comunità indiana del Pacifico nord-occidentale ad Agassiz, British Columbia, negli anni 1988-91. Si tratta di un intervento che presenta una serie di aspetti di grande interesse: in primo luogo, la scuola è stata commissionata da esponenti insolitamente illuminati del ministero per l’Educazione del Canada; in secondo luogo, dato che sarebbe stata costruita dagli stessi membri della comunità indiana, gli architetti hanno compreso la necessità di preparare un modello per ovviare al fatto che gli indiani non sarebbero stati in grado di leggere i progetti, soprattutto per l’estrema complessità geometrica del lavoro. Infine, l’edificio presenta aspetti topografici e culturali del tutto straordinari: la forma gibbosa del tetto a scandole, in particolare, riecheggia il profilo delle montagne vicine, riprendendo anche il disegno dei pilastri inclinati del portico, disposti lungo la facciata meridionale della scuola. Questi ultimi rappresentano un sottile riferimento alle strutture utilizzate per seccare il pesce che tradizionalmente costituivano un elemento prominente della facciata delle case indiane in legno che sorgono lungo la costa. Un’opera di reciprocità paragonabile a questa è stata costruita nel 1994 a Yirrkala, nel Northern Territory, in Australia, su progetto di Glenn Murcutt, per un importante membro di una tribù aborigena australiana. Stiamo parlando della Marika-Alderton House, costruita per Banduk Marika, allora rappresentante tribale nel Parlamento australiano a Canberra. Questa casa su due piani, in pratica costruita completamente in legno, è rialzata di un metro rispetto al terreno per evitare allagamenti e avere una vista libera sull’orizzonte, un’importante caratteristica difensiva tradizionale della cultura dei nativi. Situata a 12,5 gradi a sud dell’equatore, dove l’umidità raggiunge l’80%, l’abitazione doveva poter essere aperta completamente per facilitare la ventilazione incrociata. È questa la ragione fondamentale che ha portato a scegliere l’installazione di scuri in legno alti quanto le pareti, i quali, una volta sollevati, si trasformano in protezioni contro il sole. Dato che la costruzione sorge su dune di sabbia in prossimità dell’oceano, è stato utilizzato un pavimento in doghe di legno che lascia filtrare la sabbia verso il terreno. Il volume principale dell’edificio è stato reso ugualmente permeabile grazie a bocchette di ventilazione girevoli montate sul tetto, orientate da banderuole segnavento in modo da allineare le bocchette con il flusso d’aria prevalente. Questi congegni sono stati installati per rendere omogenea la pressione all’interno e all’esterno quando la casa è soggetta a forti venti ciclonici, che potrebbero danneggiarne la struttura. Come nel caso della Seabird Island School, questa casa fa riferimento alla tradizione abitativa indigena senza peraltro tentare minimamente di imitarla. Con il suo tetto in lamiera, le bocchette di ventilazione, uno scheletro in metallo ed elementi tubolari verticali usati per rinforzare la struttura in legno e il rivestimento, essa è un’inequivocabile traduzione della capanna tradizionale in forma moderna. In questo senso, va notato che l’edificio è stato costruito a Sydney e trasportato a nord su camion, eppure è giunto a stabilire uno standard completamente nuovo per l’edilizia abitativa degli aborigeni australiani nella regione. In precedenza, le popolazioni native erano state alloggiate dalla burocrazia governativa in case fabbricate con blocchi di cemento, sprovviste di un’adeguata ventilazione. Un altro notevole contributo alla cultura aborigena nell’epoca postcoloniale è stato dato a metà degli anni Ottanta da Eila Kivekäs, straordinario personaggio femminile di origine finlandese, coinvolta nell’opera di promozione in patria della figura di Alpha Diallo, un intellettuale della Guinea che aveva deciso di tradurre in lingua fula il Kalevala, poema epico nazionale finlandese. Dopo l’inattesa morte di Diallo in Finlandia, Eila Kivekäs ha organizzato il trasferimento delle spoglie in Guinea e, poco dopo, si è recata lei stessa nel Paese africano per fondare un centro di artigianato locale che avrebbe contribuito al miglioramento della condizione femminile, nonché delle condizioni sanitarie in generale. A questo scopo, Kivekäs ha creato a Mali, una cittadina della Guinea con un migliaio di abitanti, l’associazione di sviluppo Indigo, il cui nome deriva dal tradizionale tessuto blu indigo prodotto dalle donne della regione. Eila Kivekäs ha infine commissionato allo studio finlandese Heikkinen-Komonen la costruzione di tre edifici: la sua abitazione a Mali (1989), la Poultry Farming School di Kindia (1990) e un centro medico locale lì vicino. Va osservato che la scuola è stata costruita soprattutto in virtù della convinzione, da parte di Alpha Diallo, che la principale priorità per il futuro benessere della società della Guinea era aumentare la quantità di proteine nella dieta quotidiana. In tutti e tre gli edifici, gli architetti hanno utilizzato materiali a basso costo e di uso comune, come schermi in bambù, blocchi in cemento, grandi mattoni fatti di terra pressata e tegole di cemento rinforzato con fibra di vetro. Dal punto di vista della poetica della luce e dell’aura legata alla tradizione locale, con la sua struttura a un piano Villa Eila a Mali è forse, dei tre, l’edificio più ‘aborigeno’. Qui, un tetto continuo a tegole e a spiovente unico e un lungo schermo di bambù intrecciato che copre interamente la facciata meridionale fungono da rivestimento per quattro volumi. In contrasto, la scuola, assemblata intorno a una corte quadrata, è quasi classica nella sua composizione minimalista. Questo quadrato è racchiuso tra due volumi a un piano situati agli angoli sud e nord-ovest della corte. Questi edifici sono composti da blocchi diversi, il primo dei quali è l’abitazione dell’insegnante-custode, mentre il secondo consiste di tre camere da quattro persone per gli studenti. L’elemento dominante, situato sull’asse a est della piazza, è la sala di lettura a doppia altezza e il suo monumentale portico in legno. Quest’ultimo è un tour de force tettonico: realizzato in legno leggero e composto con travi trasversali, la sua struttura è irrigidita in modo elegante ed economico con cavi di metallo. Nel 1995 la Finlandia è stata coinvolta anche nella realizzazione di un centro per le donne in Senegal, alla periferia della città di Rufisque. Del tutto appropriato pare il fatto che la progettazione sia stata affidata a tre giovani progettiste finlandesi: Saija Hollmén, Jenni Reuter e Helena Sandman. Questo edificio a un piano, costruito con blocchi di cemento tinti di rosso, consiste in un semplice recinto a U. L’immagine potentemente espressiva deriva dalla forma protettiva teatrale del recinto, dal colore e dai sottili fori praticati qua e là nella struttura perimetrale. Vorrei completare questa breve nota sull’ambito potenziale dell’architettura agonistica con un commento sullo straordinario lavoro dello Studio Mumbai. Fondato nel 1995 nella megalopoli indiana, sotto la direzione di Bijoy Jain, Studio Mumbai sembra avere un approccio kropotkiniano alla cultura del costruire, e volge lo sguardo indietro alla bottega di William Morris e anche più in là, ai tempi del falegname quale primo architetto. Per molti aspetti, sebbene abbia una formazione di architetto, Jain è diventato una sorta di capomastro dei nostri giorni, in quanto il suo ruolo è quello di coordinare il lavoro di un’equipe di artigiani. Tramite una certa creatività trasgressiva, Studio Mumbai ha dimostrato la sua perizia non solo in fatto di carpenteria e falegnameria, ma anche in tema di ceramiche, intonaco colorato, muratura, lavorazione della pietra, e altro ancora. Comunque va riconosciuto che le belle case che lo Studio Mumbai ha costruito nello Stato del Maharashtra sono, in ultima analisi, residenze borghesi decisamente costose, che non potrebbero essere più lontane dai lavori più modesti di cui abbiamo parlato in queste pagine. Tuttavia, questa è pur sempre una specie di architettura reciproca e ‘altra’, con la quale, per definizione, Jain ha scelto di prendere le distanze dall’architettura delle grandi firme della nostra società in tutte le sue forme estetiche.

Con il termine ‘agonistico’ vorrei evocare l’idea di un’architettura che pone l’accento sui particolari requisiti e sulla specifica natura della topografia e del clima in cui essa si colloca, pur continuando ad attribuire forte priorità all’espressività e agli attributi fisici del materiale di cui l’opera è fatta. Ho tratto l’espressione dalla teoria politica di Chantal Mouffe, di recente pubblicata con il titolo Agonistics. Thinking the World Politically (2013)*. Dato che l’architettura non può agire ovviamente in modo politico, mutuando il termine intendo alludere a un’architettura multiforme e nettamente contrapposta alla spettacolarità stilistica, egemonica, della visione neoliberista del mondo, ovvero all’estetismo falsamente sensazionalista e superficiale del nostro tempo. A mio parere è proprio questa enfasi modaiola continuamente mutevole sull’involucro decorativo e minimalista che, di fatto, ha privato l’architettura di uno dei suoi attributi fondamentali: l’antico compito di organizzare e orchestrare lo spazio dell’immagine pubblica in modo culturalmente significativo. Inoltre, la teoria politica dell’agonismo di Mouffe consente una rivalutazione della regionalità come realtà antiegemonica, in grado di contrapporsi adeguatamente tanto al declino dello Stato nazionale quanto alla forza totalizzante dell’indifferenza dell’economia globalizzata [14].


Note

1.
Guy Debord, Commentari sulla società dello spettacolo, Fausto Lupetti Editore, Bologna 2012.
2.
Citazione dal discorso pronunciato a Francoforte nel 2008 da Anselm Kiefer in occasione del conferimento del Friedenspreis des Deutschen Buchhandels (il Premio per la pace assegnato dai librai tedeschi).
3.
Vedi Wendell Berry, The Unsettling of America: Culture and Agriculture, Aron, New York 1978, pp. 39-95.
4.
Il carattere totalitario della modificazione genetica è palese nella continua lotta tra Vandana Shiva e la società chimica Monsanto per tutelare il diritto degli agricoltori indiani a conservare le sementi per la seconda semina.
5.
Si ritiene che ogni anno vadano estinti circa 30.000 animali e vegetali. Tra le specie a rischio ci sono le api, che provvedono all’impollinazione. È ovvio che la loro estinzione avrebbe conseguenze disastrose.
6.
Vedi Looking Back on the End of the World, a cura di Dietmar Kamper e Christoph Wolf, Semiotext(e), New York 1989, p. 29.
7.
Clifford Krauss, Plan to Ban Oil Drilling in the Amazon is Dropped, in The New York Times, August 17, 2013, pp. B1 and B3.
8.
Vedi Roland Rainer, Livable Environments, Artemis, Zürich 1972; vedi anche Serge Chermayeff e Christopher Alexander, Community and Privacy: Toward a New Architecture of Humanism, Anchor Books, New York 1965.
9.
Vedi Paul Ricœur, Universal Civilization and National Cultures, in History and Truth, Northwestern University Press, Evanston1965.
10.
Kenneth Frampton, Verso un regionalismo critico. Sei punti per un’architettura della resistenza, in L’antiestetica, a cura di Hal Foster, postmedia books, Milano 2013.
11.
Vedi Fredric Jameson, The Seed of Time, Columbia University Press, New York 1994, pp. 202-203.
12.
Vedi Kenneth Frampton, Rappel à L’Ordre, the Case for the Tectonic, in Architectural Design, 50, no. 3/4, 1991.
13.
Vedi Kenneth Frampton, Five North American Architects, Lars Müller Publishers e Columbia University, New York e Zürich 2012.
14. Vedi Chantal Mouffe, Agonistics: Thinking the World Politically, Verso, London 2013. Come afferma l’autrice, citando Massimo Cacciari, “lo Stato moderno è lacerato all’interno dalla pressione dei movimenti regionalisti e all’esterno dalle conseguenze della crescita dei poteri istituzionali sovranazionali, nonché dalla forza crescente della finanza mondiale e delle industrie multinazionali”.

  Kenneth Frampton (Woking, Regno Unito, 1930) è uno storico, critico e teorico dell’architettura. Ricopre la cattedra di Ware Professor of Architecture alla Graduate School of Architecture, Planning, and Preservation della Columbia University, New York.