Cassim Shepard

A proposito di comproprietà e case popolari

Vivere nelle metropoli contemporanee è una pratica migratoria che mette in dubbio ciò che è reale nella proprietà immobiliare.

Il 2011 è un anno di buon augurio per l'urbanistica di New York. Coincide con il duecentesimo anniversario del Commissioner's Plan del 1811, un piano audace che univa, nella forma della griglia viaria di Manhattan, la regolarità ortogonale delle strade all'indeterminatezza dell'architettura. È anche il cinquantenario della Zoning Resolution del 1961, un pacchetto di norme e di requisiti che guida tuttora l'evoluzione dell'ambiente costruito di New York. I due documenti differiscono esteriormente nei rispettivi ambiti (lo schema delle vie nel primo, la mole degli edifici nell'altro) ma hanno in comune la responsabilità nel definire la forma di New York. E tuttavia anche i piani regolatori più stringenti non possono che favorire o impedire quel che si fa dello spazio. Non possono determinarlo compiutamente.

Poche settimane fa il sindaco di New York Bloomberg ha annunciato una nuova iniziativa residenziale che fa parte della revisione del PlaNYC, il piano di gestione del territorio municipale "allo scopo di preparare la città a ricevere un altro milione di residenti, di rafforzare l'economia, di combattere il cambiamento climatico e di migliorare la qualità della vita di tutti i newyorchesi". L'iniziativa affronta esplicitamente la trasformazione demografica della popolazione cittadina (in particolare l'incremento numerico degli anziani e dei single) per sperimentare "cambiamenti normativi che riguardano il patrimonio edilizio esistente, in grado di consentire, dove sia appropriata, l'aggiunta legale di un appartamento alle residenze mono e bifamiliari". In realtà, per soddisfare la trasformazione e l'espansione delle esigenze abitative il Comune sta cercando il modo di trarre un maggior numero di abitazioni dal patrimonio edilizio esistente, il che può significare unità più piccole che corrispondano a nuclei di inquilini più piccoli o non tradizionali.

Che si voglia vivere in modo sostenibile o che non si abbia un soldo, il nuovo imperativo ambientale ed economico è farcela con meno. In campo immobiliare ciò di solito significa farcela con meno spazio. Certo ci sono altri modi per risparmiare denaro sulla casa: pretendere meno servizi e abitare in un quartiere meno pregiato. Ma è ancora la quantità di spazio a determinare il prezzo, e a determinare ciò che, in termini normativi, si considera abitabile. Dato il sempre minor numero di persone che riescono a trovare case conformi agli standard legali di abitabilità, un numero sempre maggiore di persone è costretto a vivere senza questi requisiti. A New York la Tenement Law del 1901 e la Multiple Dwelling Law del 1929 fissano gli standard di spazio, di illuminazione e di aerazione nel tentativo di tutelare i più deboli dalle condizioni di squallore illustrate dalla crociata fotografica di Jacob Riis volta a documentare (e riformare) il patrimonio abitativo di New York con How the Other Half Lives ("Come vive l'altra metà", 1890). Se Jacob Riis fotografasse oggi "l'altra metà" la miseria di cui andava in cerca sarebbe molto meno concentrata e probabilmente si troverebbe in luoghi inaspettati. Riis troverebbe un gruppo di immigrati in miseria in una cantina riconvertita illegalmente in una bella via alberata dei sobborghi di Queens. Troverebbe un nuovo laboratorio di confezioni nello spazio originariamente destinato agli uffici di una multinazionale. In altre parole, nella condizione di miseria estrema, gli sarebbe difficile individuare e mettere in risalto qualunque uniformità, e tanto meno qualunque agglomerato spaziale. L'indigenza si concentrerà sempre in determinate zone. Ma ciò non vuol dire che mettere in risalto le condizioni di vita nelle zone dove si concentra la miseria esaurisca l'argomento.

La proprietà immobiliare, secondo il dizionario giuridico Black's Law Dictionary, consiste "nel terreno e nelle proprietà permanentemente unite a esso, come costruzioni, abitazioni, recinzioni". Ovviamente esistono parecchie forme di proprietà che, quando si abbandona il terreno, si possono portar via. E se non si tratta di proprietà immobiliari vengono definite proprietà "personali". Per chi (come me) non ha familiarità con il termine, il Black's è così cortese da dare qualche esempio di proprietà personale: "Automobili, conti correnti bancari, salari, obbligazioni, piccole attività economiche, mobili, polizze d'assicurazione, gioielli, brevetti, animali domestici e abbonamenti alle partite di baseball sono tutti esempi di proprietà personali". E tuttavia, mentre "immobile" nell'espressione "immobiliare" si riferisce alla permanenza e alla fissità, vivere nella metropoli contemporanea è tutt'altro che statico. Si tratta di una nuova prassi migratoria che spesso richiede forme nuove di mobilità e modi nuovi di separare attività (come lavorare, dormire, cucinare) dagli spazi in cui sono tradizionalmente collocate: l'ufficio, l'appartamento, la cucina privata. Questi nuovi modi sono spesso invisibili. Ma un'ondata di innovazioni imprenditoriali, dal car sharing della ZipCar all'editoria on demand di Lulu, fino alla varietà degli esperimenti di lavoro condiviso, fonda il suo modello di business sul passaggio dal modello economico e societario dei beni a quello dei servizi, dall'assortimento alla produzione just-in-time, dalla proprietà alla condivisione.

Internet, secondo Robin Chase, uno dei fondatori della ZipCar, è il meccanismo ideale per la condivisione di risorse scarse tra numerosi utenti sparsi nel territorio. L'abitazione a prezzo accessibile a New York non è certo una risorsa ampiamente disponibile. Ma, quando si pensa alla condivisione nel contesto del mercato immobiliare residenziale, l'immagine evocata è più probabilmente quella di una comproprietà alle Bermude che non quella di uno scantinato di Queens. Tuttavia la prassi contemporanea dei nuovi arrivati di New York – nomadi, poveri e spesso clandestini – ha più aspetti comuni di quanto non ci si aspetti con le piattaforme di condivisione in rete diffuse tra chi frequenta l'altro lato del digital divide. Io non possiedo immobili, ma ho un bel po' di proprietà personali. Libri, abiti, qualche pezzo d'arredamento e qualche opera d'arte: quanto basta perché, quando ho traslocato nel mio attuale appartamento, decidessi di affittare un furgone e di servirmi di qualche aiutante. Ma misteriosamente quel fine settimana tutti i miei amici non erano disponibili. Entra in scena un giovane ecuadoriano che (quando ha un giorno libero dal lavoro nella cucina di un ristorante di Manhattan) se ne sta in mezzo a un gruppo di giovani di fronte alla sede di una ditta di traslochi di Brooklyn, in cerca di un paio d'ore di lavoro per il trasloco di gente come me. Abbiamo presto fatto amicizia e, come spesso succede chiacchierando a New York, ci siamo trovati a parlare di proprietà immobiliari. Quando ha saputo quanto avrei pagato d'affitto per il mio nuovo appartamento (che a me pareva un buon affare, tra parentesi) ha pensato che mi avessero preso per il collo. Gli chiesi che strategia avesse per trovare un posto dove vivere a buon mercato. "Semplice", ha risposto, "Condivisione!" Ho presto scoperto, comunque, che non stava parlando di compagni di stanza o di convivenze amorose. Parlava di pagare per l'uso della stanza in cui dorme per il preciso numero di ore in cui ci sta dentro. Un suo conoscente che lavora di giorno usa la camera nell'altra metà della giornata. Entrambi a quanto pare preferiscono questa sistemazione alla divisione dello spazio, con i letti sovrapposti o con altre soluzioni spaziali a un problema cui hanno ritenuto si potesse rispondere per via di programmazione e di logistica. Dopo tutto "in questa città", mi ha detto con un'alzata di spalle il mio nuovo amico, "si lavora ventiquattr'ore su ventiquattro". Ma ha aggiunto che, se entrambi si avessero frequentato quello spazio nello stesso periodo della giornata, al padrone di casa non sarebbe piaciuto. I due avevano scelto quella sistemazione. Non è comunque difficile immaginare, in un sistema di questo genere, che un padrone di casa poco scrupoloso (per non dire criminale) metta in opera varie forme di sfruttamento o trascuri le elementari norme di sicurezza.

Sui sommergibili le chiamano "brande calde": significa assegnare a più di un marinaio la stessa cuccetta, da usare a rotazione. Il termine è stato adottato in certe analisi dell'immigrazione clandestina e della miseria urbana, anche se non è un uso troppo diffuso. Ma è una prassi probabilmente in aumento. E altrettanto si può dire anche della più visibile prassi della suddivisione illegale. Secondo una società per l'edilizia sociale che lavora sulle esigenze residenziali dei nuovi immigrati di Queens quasi il 40 per cento delle nuove unità abitative create a New York tra il 1990 e il 2005 sono illegali. Alcune di queste unità sono illegali perché non sono sicure, altre perché non sono conformi alla normativa residenziale (come nel caso di due famiglie che vivono in una casa monofamiliare) e altre perché tre o più adulti senza legami di parentela condividono la stessa unità. Mi chiedo come cambierebbero queste statistiche se avessimo un quadro più preciso dell'intera gamma dei modi di condivisione dello spazio, se i dati riguardassero il numero di persone costrette a situazioni di abitazione illegale invece che il numero di unità illegali. Se si tratta di capire la città contemporanea dobbiamo parlare di spazio o di come la gente lo usa?

Cassim Shepard è direttore di Urban Omnibus, pubblicazione online della Architectural Ligue di New York, e produttore di documentari di design, di urbanistica e di analisi della città, dell'edilizia e dei luoghi. Ha insegnato alla New York University, alla Parsons New School for Design, al National Institute of Design di Ahmedabad, in India, e al City Programme della London School of Economics. Ha esposto sue opere al Musée de la Civilisation del Québec, alla Cineteca di Bologna, al Salone Internazionale del Mobile di Milano e alla Biennale di Architettura di Venezia del 2006. È attualmente docente incaricato di Architettura presso la Graduate School of Architecture, Planning and Preservation della Columbia University, nonché Poiesis Fellow presso l'Institute for Public Knowledge della New York University.

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