Il coniglio nero è il segno e la soglia del ristorante che porta il suo nome. Appare nella sigla della miniserie TV che ha nel Black Rabbit il suo cuore pulsante e il suo centro gravitazionale e poi si moltiplica in ogni scena: inciso sulla tappezzeria del bagno, ripetuto come motivo grafico tra foglie e farfalle, appeso in bronzo sopra l’ingresso del locale, o in miniatura, sul cruscotto dell’auto di Jake, uno dei due fratelli proprietari e fondatori. È logo, talismano, presagio. Ma anche la cifra visiva di una serie che costruisce la sua narrazione attraverso il linguaggio degli interni: superfici, luci, materiali, atmosfere.
La serie è ambientata nella New York contemporanea, dentro e attorno alla scena gastronomica e notturna della città. Tribeca, il ponte di Brooklyn, le strade che odorano di pioggia e hamburger. Il ristorante che dà il titolo alla serie è insieme un’impresa e un sogno: un rifugio, una casa, un palcoscenico dove si mescolano cibo, musica, droga, alcol, sesso e desideri.
“Quando abbiamo aperto il Black Rabbit – dice Jake – non volevamo solo un ristorante, ma una casa per noi, per la nostra famiglia, per la nostra gente. Un posto per una bevuta, un sigaro, per mangiare il miglior hamburger di tutta New York. Un posto in cui non sai dove la notte ti porterà”.
È un luogo fisico, ma anche una dichiarazione di poetica: un luogo progettato come estensione del corpo e della memoria, come costruzione di comunità.
La serie gioca tutto sulla dialettica tra rovina e rinascita. Nel sopralluogo iniziale, Vince – il fratello visionario – osserva un vecchio bar dismesso: “È il bar più vecchio di New York. Ci venivano i pirati. Sopra c’era un bordello.”
Jake lo guarda scettico: “Per fare cosa?”.
E Vince risponde: “Possiamo buttare giù il muro, ricavare una cucina, sopra un’area vip con un open space, e su ancora una terrazza che guarda Manhattan. Ti ricordi il Mars Bar? La gente vuole ancora posti così. I ristoranti sono i locali notturni degli adulti”.
Il riferimento è preciso: il leggendario Mars Bar dell’East Village, sporco, rumoroso e iconico, demolito nel 2011 per lasciare posto a un condominio di lusso. Il suo fantasma aleggia in tutta la serie: memoria di una New York pre-gentrification, dove l’arte, la notte e la disperazione convivevano nella stessa stanza. Il Black Rabbit nasce da lì – dal desiderio di riportare in vita quell’energia sporca e autentica – ma lo fa con la consapevolezza di chi è ormai dentro il sistema che un tempo rifiutava.
Il sogno di rinnovare un luogo coincide sempre, in Black Rabbit, con il rischio di perdersi. Come nella città stessa, ogni costruzione porta con sé una demolizione.
Il design del locale è un racconto di stratificazioni: ferro e velluto, vetri tondi bombati, ombre calde, caminetti veri, pareti che raccontano il tempo. È una bellezza ferita, vissuta, abitata. Eppure, dietro quell’estetica “dirty chic”, c’è la tensione verso un ideale di armonia, di ordine, di controllo.
Quando Jake visita il Seagram Building e confida all’interior designer Estelle di voler aprire lì il suo secondo ristorante, il Pool Room, la scena si trasforma in un duello simbolico tra due visioni del mondo e dell’architettura.
“Ma sai chi l’ha costruito?”, chiede lui.
“Certo,” risponde lei, “Mies van der Rohe.”
“Questo posto è intoccabile,” aggiunge Estelle. “È un’istituzione.”
Jake replica: “Le istituzioni vanno rinnovate.”
È il manifesto estetico della serie. Da un lato il rigore modernista del Seagram – l’architettura perfetta, la purezza geometrica – dall’altro il disordine vitale del Black Rabbit, la materia viva, l’imperfezione. Due modi di intendere l’architettura e il design: l’uno come legge e canone, l’altro come trasgressione e ribellione.
E in mezzo, c’è la famiglia. Il sangue che non scegli. Jake e Vince sono fratelli legati da un affetto feroce e da un passato ingombrante. Ogni scelta estetica è anche una scelta etica: costruire un locale insieme, rimettere mano alle rovine, significa tentare di ricucire qualcosa di più profondo – la propria storia, la propria infanzia, la propria appartenenza. “Tu metti le braccia e io la testa,” dice Vince. “Faremo il locale più figo di New York.” Ma il sogno di rinnovare un luogo coincide sempre, in Black Rabbit, con il rischio di perdersi. Come nella città stessa, ogni costruzione porta con sé una demolizione.
La tanto attesa recensione del New York Times definisce il ristorante del Black Rabbit “Una porta magica che nasconde quella che potremmo chiamare l’esperienza culinaria migliore degli ultimi vent’anni”. Ma più che un successo gastronomico, il Black Rabbit è una riflessione sulla fragilità del sogno americano – sul bisogno di reinventare la casa, la famiglia, il senso del legame.
Black Rabbit non parla solo di un ristorante. Parla dell’impossibilità di separare l’estetica dall’etica, l’architettura dalla psiche, lo spazio dal sentimento.
Ogni piastrella, ogni lampada, ogni muro abbattuto raccontano la tensione fra ciò che si eredita e ciò che si costruisce. Fra il sangue che ti lega e quello che ti macchia.
