Astronavi, rovine e metropoli corporative: le architetture ostili di Alien

Dalla Nostromo alla Terra del 2120: dal 1979 a oggi, il design dell’universo di Alien non ha mai smesso di raccontare paure, ideologie e infrastrutture della fantascienza.

di Ramona Ponzini

Il progetto scenografico della Nostromo per l’Alien originale, quello di Ridley Scott del 1979, segna una svolta nel design fantascientifico. Chris Foss e Ron Cobb, illustratori di fantascienza e concept designer molto influenti a dare forma al linguaggio visivo del genere, concepiscono l’astronave Nostromo come una raffineria orbitale. La logica è quella della traduzione diretta di infrastrutture terrestri: centrali elettriche, piattaforme di carico, sistemi di ventilazione industriale. Tubature, valvole, griglie e cablaggi sono esposti, senza alcuna ricerca di pulizia formale. La nave non simula trasparenza tecnologica, ma la pesantezza della macchina produttiva.

Il complesso della colonia in Aliens - Scontro finale di James Cameron (1986)

Questo approccio si colloca in netto contrasto con l’estetica levigata di pellicole come 2001: Odissea nello spazio (1968): dove Kubrick propone interni candidi, superfici lisce e ambienti concepiti come architettura ideale, Scott mostra spazi saturi, opachi, dominati dal rumore visivo della tecnologia. Alla purezza razionale del modernismo kubrickiano si oppone la materialità grezza dell’infrastruttura industriale. L’architettura interna della Nostromo si struttura come un assemblaggio di moduli funzionali, privi di un ordine estetico centralizzato. I corridoi hanno proporzioni vicine a condotti di servizio, le sale di controllo sono colme di strumenti analogici e pannelli ridondanti. L’uomo non è al centro del progetto, ma inserito in una macchina che lo ingloba. È un ambiente dove la funzionalità prevale sulla forma, e dove la forma stessa è esito di stratificazione tecnica.

Hans Ruedi Giger, artista svizzero noto per il suo immaginario “biomeccanico”, venne coinvolto da Ridley Scott dopo aver visto i suoi disegni per il volume Necronomicon (1977). La sua estetica, fatta di corpi ibridi, forme organiche innestate su strutture meccaniche e un erotismo perturbante, definì l’aspetto di “alien”, ovvero dello xenomorfo e dei suoi ambienti originari.

Il complesso della colonia in Aliens - Scontro finale di James Cameron (1986)

L’ingresso della creatura di Giger introduce una rottura netta. Lo xenomorfo porta un linguaggio morfologico estraneo all’estetica modulare della nave. La pelle lucida, la struttura ossea e le appendici flessibili contraddicono la linearità metallica dell’ambiente. L’architettura della Nostromo non contiene il mostro, ma ne rivela l’alterità: i corridoi diventano trappole, le geometrie rettilinee si piegano all’imprevedibilità del corpo organico.

Una delle cifre rivoluzionarie del film risiede proprio in questa dicotomia, nel conflitto tra due ordini visivi capaci di ridefinire l’orizzonte della fantascienza.

Aliens (James Cameron, 1986): l’ LV-426 e la colonia come frontiera

Cameron riprende l’LV-426, la luna rocciosa solo intravista nel primo film, trasformandola da enigma in teatro architettonico. Se nel primo capitolo il pianeta restava spazio liminale, definito da tempeste e orizzonti rocciosi, in Aliens diventa il luogo di un intervento sistematico: la terraformazione e la costruzione di una colonia mineraria. Il design dei complessi abitativi e produttivi, sviluppato da Peter Lamont, è debitore delle logiche modulari e prefabbricate tipiche dell’architettura industriale tardo-novecentesca. Blocchi geometrici, corridoi funzionali, sistemi di tubazioni interni ed esterni: ogni elemento rimanda all’idea di un insediamento temporaneo e sostituibile.

Derelict on LV-426, Wreck II - H.R. Giger, 1978

La colonia Hadley’s Hope è pensata come proiezione della logica estrattiva della Weyland-Yutani: non un’architettura destinata alla durata, ma un avamposto di sfruttamento, costruito per essere replicabile e sacrificabile. In questo senso, il paesaggio del pianeta non è mai neutro: le distese rocciose e le tempeste elettriche vengono integrate in un reticolo industriale che non dialoga con il contesto ma lo impone. La tensione estetica nasce proprio da questa dissonanza tra un ambiente geologico radicalmente ostile e l’artificialità delle strutture umane.

H.R. Giger, Necronom IV, 1976. © H.R. Giger © Fair Use. Courtesy WikiArt

Il contrasto con lo xenomorfo, qui in forma proliferante, si gioca a livello architettonico: i corridoi modulari della colonia diventano spazi di imboscata, la griglia industriale si trasforma in rete di cattura per una creatura che agisce secondo un ordine organico non prevedibile. Cameron accentua il conflitto geometrico: da un lato la linearità razionale degli spazi prefabbricati, dall’altro l’invasione rizomatica dei nidi alieni, con superfici resinose che ricoprono e deformano le strutture. L’LV-426 diventa il paradigma della fragilità della frontiera: un luogo dove la retorica dell’espansione industriale si dissolve di fronte a un organismo capace di riscriverne l’architettura stessa.

Alien³ (David Fincher, 1992) e Alien vs. Predator (Paul W. S. Anderson, 2004): prigione e piramide

La colonia penale Fiorina 161 in Alien³ ha a tutti gli effetti le caratteristiche dell’architettura del controllo. Le scenografie, concepite da Norman Reynolds (scenografo premio oscar dei migliori capitoli di Guerre Stellari e Indiana Jones) adottano un linguaggio che rielabora l’immaginario del complesso industriale dismesso e del monastero fortificato. Corridoi angusti, scale in ferro battuto, porte blindate e spazi comuni ridotti all’essenziale generano un ambiente dominato da una geometria carceraria priva di aperture verso l’esterno. L’architettura è insieme punitiva e monastica: luogo di lavoro coatto e di reclusione spirituale, che traduce in termini materiali la condizione dei detenuti.

La raffineria nell'Alien di Ridley Scott (1979)

Questa scelta progettuale determina una tensione radicale con la creatura. Lo xenomorfo, che in Alien agiva come corpo intruso in uno spazio industriale, qui si muove in un sistema già concepito come trappola. Le gallerie e i condotti della prigione diventano parte integrante della dinamica di caccia, ribaltando la logica del panopticon, cioè di un sistema concepito per il controllo totale: non è più l’istituzione a controllare il prigioniero, ma l’organismo a sovvertire il dispositivo architettonico. La prigione si trasforma in un labirinto predatorio, in cui la razionalità disciplinare implode sotto la pressione di una presenza organica incontrollabile.

Di segno opposto è la piramide antartica di Alien vs. Predator, il film crossover tra due dei franchise di fantascienza più popolari degli anni ’80 e ’90. Qui il design abbandona la logica industriale per rivolgersi all’archeologia monumentale. La struttura ibrida elementi mesoamericani ed egizi, proponendo un’architettura che si pone come dispositivo simbolico e rituale. I corridoi e le sale rispondono a una logica di sacralizzazione dello spazio. L’architettura non è habitat, ma macchina narrativa: i muri scorrono, le stanze mutano disposizione, la struttura intera si riconfigura come un organismo programmato per il combattimento.

Alien: Prometheus di Ridley Scott (2012)

In questo contesto, lo xenomorfo perde la sua funzione di alterità radicale per diventare parte di un ciclo rituale. La piramide non viene invasa dal mostro, ma predisposta per ospitarlo: la creatura è inscritta nell’architettura stessa, come elemento di un codice iniziatico. Se la prigione di Alien³ mostrava la fragilità del sistema disciplinare di fronte all’organico, la piramide di Alien vs. Predator offre invece un modello opposto, in cui l’organismo alieno diventa parte integrante di un paesaggio concepito per contenerlo e celebrarlo.

Alien: Resurrection (Jean-Pierre Jeunet, 1997) e Alien: Romulus (Fede Álvarez, 2024): l’astronave come laboratorio

In Alien: Resurrection le scenografie di Nigel Phelps (Batman, Full Metal Jackets, Judge Dredd) abbandonano l’estetica dei capitoli precedenti per adottare un linguaggio ibrido: da un lato la razionalità modulare tipica delle installazioni di ricerca, dall’altro una stilizzazione coerente con la visione estetizzante di Jeunet. Ogni spazio appare progettato per contenere, osservare e sfruttare.

L’architettura dell’astronave Auriga è dominata dal principio della compartimentazione. Laboratori, celle di contenimento e spazi tecnici sono isolati tra loro, collegati da passaggi che sottolineano la logica del controllo. L’elemento centrale è la manipolazione: la nave analizza, seziona, clona. È uno spazio dove la scienza si fonde con il militare, e l’estetica architettonica riflette questa commistione: rigore geometrico piegato a uso coercitivo. In questo contesto, lo xenomorfo (e Ripley con esso) è materiale da laboratorio, inscritto fin dall’inizio nel funzionamento della macchina architettonica.

Alien: Romulus porta la narrazione su una stazione spaziale con struttura a doppio registro.

L’architettura della Renaissance, la stazione spaziale che fa da scenario di Alien: Romulus di Fede Álvarez (2024)

L’architettura della Renaissance, la stazione spaziale che fa da scenario di Alien: Romulus, è concepita come dispositivo di memoria cinematografica: divisa in due moduli distinti, Remus e Romulus riflettono due epoche estetiche e tecnologiche della saga. Il modulo Remus recupera la materialità industriale e funzionale di Alien (1979); il modulo Romulus, su cui si concentra l’azione, si ispira all’universo visivo di Aliens (1986). Questa duplicità, lungi dall’essere mero esercizio di stile, restituisce allo spettatore un deliberato gesto di progettazione scenografica: la stazione non unifica i linguaggi, ma li mette in contrasto, trasformando l’architettura in un commento meta-cinematografico. Il design diventa così un ponte fra due tradizioni visive, inscrivendo la vicenda in una dimensione sospesa tra memoria e aggiornamento. L’effetto finale è quello di uno spazio in cui lo spettatore riconosce la genealogia del franchise attraverso le forme stesse degli ambienti.

In entrambi i film, l’astronave e la stazione spaziale non funzionano più come infrastruttura produttiva o come avamposto coloniale, ma come laboratorio esteso. L’organismo alieno non minaccia dall’esterno, ma nasce dall’interno, prodotto e custodito dalla stessa macchina architettonica che dovrebbe contenerlo.

L’architettura della Renaissance, la stazione spaziale che fa da scenario di Alien: Romulus di Fede Álvarez (2024)

Prometheus (Ridley Scott, 2012) e Alien: Covenant (Ridley Scott, 2017): pianeti come architetture cosmiche

Con Prometheus, Scott abbandona l’immaginario industriale per introdurre un’estetica che dialoga con l’archeologia monumentale. Il pianeta LV-223 è presentato come un ambiente geologico severo, con distese basaltiche e cieli plumbei, ma il suo vero centro è la struttura artificiale degli Ingegneri: la montagna che custodisce le urne. Questo edificio/astronave non risponde ad alcuna logica funzionale umana: corridoi ciclopici, geometrie curvilinee, proporzioni sovrumane. È un’architettura che mira alla monumentalizzazione del biologico. Le superfici interne sono levigate, prive di dettagli tecnologici leggibili, e comunicano l’idea di una scienza inscritta nel simbolico, più che nella tecnica.

In Prometheus il paesaggio diventa quindi un campo di tensione tra natura ostile e architettura cosmica. Il laboratorio sotterraneo non è un impianto industriale, ma una camera sepolcrale: luogo di conservazione e di culto, dove la scienza si presenta come rituale. In questo contesto lo xenomorfo, o meglio la sua genealogia, non appare come intrusione, ma come risultato coerente di una logica che già prevede il biologico come materiale costruttivo.

L'astronave Auriga in Alien: Resurrection di Jean-Pierre Jeunet (1997)

Alien: Covenant sposta la riflessione sul pianeta natale degli Ingegneri, ridotto a rovina. Qui l’architettura si presenta come città distrutta: piazze, templi e strutture monumentali erose dalla catastrofe. L’estetica è vicina a quella delle metropoli classiche fossilizzate, con un impianto urbanistico centripeto e spazi che evocano la teatralità della polis. L’intervento di David, androide demiurgo, trasforma questo paesaggio in laboratorio a cielo aperto. Le strutture monumentali diventano luoghi di esperimenti e manipolazioni genetiche, in una ibridazione tra archeologia e biotecnologia.

Il contrasto tra Prometheus e Covenant si gioca proprio su questo passaggio: dalla monumentalità integra del tempio alla rovina abitata, dalla sacralizzazione del biologico alla sua sperimentazione sistematica. In entrambi i casi il pianeta è spazio totale che incorpora e trasforma l’organico, inscrivendolo in un disegno che supera le categorie dell’umano.

La piramide di Alien vs. Predator, Paul W. S. Anderson (2004)

Alien: Isolation (Creative Assembly, 2014): la Sevastopol Station

La Sevastopol Station rappresenta un unicum nel franchise: un’architettura che non appartiene al cinema ma al videogioco, progettata per essere percorsa e abitata in prima persona. Il design riprende i codici visivi del 1979, ma con un lavoro di ricostruzione filologica che traduce l’estetica analogica in esperienza immersiva. Corridoi angusti, pannelli ingombranti, luci intermittenti e sistemi meccanici obsoleti compongono un ambiente che conserva la materialità industriale della Nostromo, amplificandone la dimensione claustrofobica. A differenza delle navi cinematografiche, la Sevastopol si articola come sistema ludico. La sua architettura è pensata come dispositivo di gameplay: spazi di occultamento, percorsi alternativi, nodi di tensione sonora e visiva. Ogni corridoio diventa scenario di scelta tattica, ogni ambiente un possibile rifugio o trappola. L’architettura non racconta solo una storia, ma struttura direttamente l’esperienza del giocatore, trasformando lo spazio in meccanica.

La stazione appare inoltre come testimonianza di un capitalismo periferico. Questo dato si riflette nel design: superfici usurate, impianti malfunzionanti, ambienti parzialmente dismessi. Il paesaggio architettonico diventa così commento sociale, restituendo il senso di un universo in balia della minaccia aliena.

Maginot, Prodigy City e Neverland: il triplice scenario di Alien: Earth

Aliens - Scontro finale di James Cameron (1986)

In Alien: Earth, la recente serie Disney+, la Terra del 2120 è controllata da cinque mega-corporazioni: Prodigy, Weyland-Yutani, Lynch, Dynamic e Threshold. Non esistono più governi nazionali: le città e le infrastrutture sono proprietà diretta di queste entità economiche, che impongono le proprie logiche spaziali e sociali su ogni aspetto della vita umana.

La USCSS Maginot, astronave della Weyland-Yutani, riprende in maniera precisa il design della Nostromo del 1979. Il production designer Andy Nicholson ha utilizzato i blueprint originali per ricreare spazi come il ponte, la mensa e la sala MUTHUR, preservando continuità visiva e sensoriale con il film di Scott. La nave mantiene la sua funzionalità come ambiente industriale, ma traslata alle esigenze narrative contemporanee, diventando un laboratorio orbitale in cui l’organico e il tecnologico interagiscono in maniera calibrata.

Mappa della Sevastopol Station in Alien: Isolation, il videogioco del 2014 firmato da Creative Assembly

Prodigy City, capitale globale sotto il dominio della Prodigy Corp di proprietà di Boy Kavalier, mescola brutalismo e influenze thailandesi. L’architettura combina masse monolitiche, superfici in cemento grezzo e geometrie funzionali con dettagli estetici esotici, generando un paesaggio urbano che comunica potenza e controllo. Qui le città si configurano come apparati corporativi totali, in cui il confine tra spazio pubblico e privato è completamente assorbito dalla logica aziendale.


Neverland (sempre opera del “prodigio” Kavalier), l’isola-laboratorio, lontana dal resto del mondo, è concepita per contenere esperimenti su esseri umani e robot (i cosiddetti ibridi), consentendo la manipolazione biotecnologica in condizioni controllate. Gli edifici sono funzionali, organizzati per il monitoraggio e la gestione dei laboratori, gli interni degli spazi residenziali richiamano il design scandivano, mentre il paesaggio circostante è selvaggio, ricco di una vegetazione tropicale umida e florida.


Nella giustapposizione dei tre ambienti principali di Alien: Earth – la Maginot, Prodigy City ma, soprattutto, Neverland – lo xenomorfo assume un ruolo profondamente diverso rispetto alla tradizione del franchise. Non più solo intruso o minaccia, la creatura diventa elemento di dialogo con l’ambiente e con gli esseri più evoluti generati nei laboratori. Proprio su questa particolare Isola dei Bimbi Sperduti la contaminazione tra natura e architettura permette allo xenomorfo di entrare in relazione con l’umano, riscrivendo la sua tradizionale alterità e trasformandolo in protagonista di un sistema di interazioni mai esplorato fino ad ora.

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