di Alessandro Scarano
Death Stranding è uno dei videogiochi più spiazzanti di sempre, attesissimo e misterioso per 4 anni di gestazione. All’uscita la critica si divide, c’è chi lo trova visionario e geniale, chi lento e non abbastanza “divertente”. Tra i giocatori presto diventa “il gioco in cui si cammina”. Quello dei videogiochi è un mondo che da un lato ha creato alcune delle narrazioni più sofisticate e sperimentali dei nostri tempi; dall’altro resta profondamente conservatore e agganciato ai suoi cliché. Death Stranding, uscito nel 2019, oggi è considerato uno dei videogiochi più importanti di sempre. Un cambiamento di percezione maturato nel tempo, accelerato dalla pandemia, di cui il gioco anticipava, quasi profeticamente, molti temi. Oggi ci puoi giocare ovunque, anche su iPhone. Sono in corso un adattamento cinematografico (prodotto da A24) e una versione anime.
Per il suo creatore, Hideo Kojima, uno dei più importanti autori dei videogiochi viventi, Death Stranding è arrivato in un momento molto particolare. Kojima, che oggi ha poco più di sessant’anni, ha legato il suo nome a Metal Gear Solid, una saga militare vendutissima che si snoda lungo mezzo secolo di storia geopolitica reale e fittizia, dalla guerra fredda a scenari post 11 settembre. Ci ha lavorato fino a un decennio fa, quando Konami, che detiene i diritti di Mgs, l’ha di fatto “congedato”. Per risposta, nel 2015 fonda il proprio studio, Kojima Productions, con base a Tokyo, che oggi ha circa 200 dipendenti. Fa un accordo con Sony e si mette a lavorare a Death Stranding, che all'inizio esce in esclusiva per PlayStation (come l'attesissimo Death Stranding 2).
Mgs ha introdotto o elaborato elementi di gameplay che poi sono diventati classici – come lo “stealth”, diventato un vero e proprio genere – e molti dei tanti titoli della serie sono considerati dei pilastri nella storia del videogioco. Una storia che Kojima ha portato avanti per decenni a partire dal primo Metal Gear del 1987 fino a Metal Gear Solid V, uscito esattamente dieci anni fa. Cosa ha reso Kojima lo “Stanley Kubrick dei videogiochi”? Senza dubbio, l’aver approcciato il game design come una sfida intellettuale, sfondando la quarta parete, forgiando scenari di gioco curati fino all’ossessione e ibridizzando il racconto con lunghe, lunghissime cutscene, ovvero scene cinematografiche che spezzano il gioco ma ne innalzano il potenziale narrativo. Inoltre, l’autore giapponese ha capito fin dagli inizi che i videogiochi possono essere usati per veicolare temi tutt’altro che scontati. Proprio come il cinema o i romanzi.
Un influencer culturale

Oggi Hideo Kojima è un personaggio globale. Una figura più simile a un regista cinematografico o a un architetto che a un programmatore. Il suo account Instagram, dove sembra più un curatore di cultura pop e pubblica soprattutto musica e cinema, oltre ovviamente a foto del suo lavoro, ha più di 3 milioni e mezzo di follower. Anche perché gli “amici” di Kojima sono l’attore Norman Reedus (ex The Walking Dead, protagonista di Death Stranding) e Lea Seydoux (anche lei in DS), la musicista Caroline Polacheck e il regista Nicolas Winding Refn, autore di film culto come Drive e Only God Forgives. Proprio con Refn, Kojima ha recentemente debuttato con una mostra nella sede giapponese di Fondazione Prada, “Satellites”. Tra gli ultimi coinvolti nel “cerchio interno” di Hideo Kojima l’attore italiano Luca Marinelli, che ha un ruolo in Death Stranding 2.
Kojima è una figura unica nel mondo del videogioco. In tempi in cui i giochi erano ancora semplicemente “giochi”, l’autore giapponese inseriva tematiche culturalmente sofisticate e utilizzava le enormi potenzialità del medium per indagare il presente. E lo faceva come sanno farlo solo pochissimi, grandissimi autori pop: inserendo domande fondamentali in macchine per l’intrattenimento che raggiungevano un pubblico estremamente ampio. Un esempio è Snatcher del 1988, un’opera dei primi anni, una sorta di Blade Runner in forma di visual novel, che incapsula in uno scenario post-apocalittico e non certo tecno-ottimista un’avventura grafica che indaga temi come il confine tra umano e macchina nella società post-industriale e la proliferazione di identità fake in una società paranoica, citando registi cinematografici come Kurosawa e Carpenter.
Nel primo Death Stranding celebravamo la connessione, ma le connessioni naturali nate offline sono molto più preziose di quelle costruite a distanza.
Hideo Kojima

Le architetture speculative di Metal Gear Solid
Lo stesso Metal Gear Solid è un gigantesco affresco della nostra realtà, che mescola politica internazionale, ragionamenti sull’intelligenza artificiale e sul corpo come piattaforma. Architetto del nostro immaginario, Kojima crea sistemi prima ancora che storie, disegnando mondi che funzionano come vere e proprie macchine ideologiche e seguono la forma delle architetture speculative. I temi in Kojima sono stratificati, trasversali e numerosi, dall’uso dei corpi come spazio di progettazione alla lettura delle città come meccanismi narrativi; i riferimenti che si possono cogliere vanno dai simulacri di Jean Baudrillard al Junkspace di Rem Koolhaas, dagli scritti di Paul Virilio a Beatriz Colomina fino all’ovvio capitalist realism teorizzato da Mark Fisher. Prendi Big Shell in MGS2 del 2001, che sembra un sogno lucido di un Michel Foucault: presentata come piattaforma ecologica, è una installazione militare creata per addestrare e manipolare il protagonista attraverso la simulazione di una guerra.
Con Mgs, Hideo Kojima ha mostrato come un videogioco di grande popolarità e successo commerciale può essere anche un riferimento culturale elaborato. L’approccio di Death Stranding è proprio l’inverso. Si presenta, soprattutto nelle battute iniziali, come la prova della maturità di un autore che fino all’altro giorno doveva ragionare comunque in termini mainstream. DS rovescia le prospettive, non ha paura di essere diverso e si apre con una missione a dir poco weird: il protagonista, Sam Bridges, porta in spalla il cadavere del presidente degli Stati Uniti da una base al crematorio, scalando montagne e attraversando ruscelli. Non ha nemici evidenti a parte la forza di gravità, non combatte, non spara (lo farà, ma solo più avanti). “Questo è un nuovo genere… ci saranno persone che non lo capiranno”, aveva commentato Kojima ai tempi dell’uscita, aggiungendo che ci sarebbe voluto tempo “perché arrivassero le vere valutazioni”.
Death Stranding: la fatica, il trauma, la profezia

In DS ci sono il nostro rapporto con il tempo metereologico, lo strano confine che c’è tra vita e morte, l’ossessione che abbiamo per l’equilibrio, l’assurdità del potere. La costante lotta contro gli incubi e perché no, contro i nostri stessi sogni. C’è una incredibile sensazione di fatica fisica che difficilmente abbiamo sentito in un videogioco. Soprattutto, c’è un mondo in cui gli esseri umani hanno perso la connessione tra di loro. Il protagonista, Sam Bridges, è quello che definiremmo un fattorino, un rider, figura emblematica del nostro presente reale, che assume importanza centrale in un mondo post-catastrofe completamente disconnesso e pericolosissimo, infestato da terroristi e fantasmi. A tratti l’affastellamento di concetti è da vertigine. Il gioco nasce ai tempi della “disconnessione” politica del primo mandato di Trump e della Brexit ed esce qualche mese prima del Covid, che ne amplifica enormemente il senso e la portata. Non è la prima volta che Hideo Kojima è stato profetico, in un suo gioco, un aspetto che ha sicuramente amplificato l’aura quasi mitologica che lo circonda.
“Mi sento sempre solo nella società… Ti senti così solo”, ha spiegato lui in una intervista, in cui racconta come è nato Death Stranding. Nel videogioco, l’azione di Sam Bridges rappresenta una possibilità di riconnessione.

“Un gioco sul riconnettere il mondo”
Ma connettersi non è sempre una buona idea. Questo, per come lo racconta lo stesso Kojima, è uno dei principi fondamentali alla base di Death Stranding 2, in uscita a fine giugno. La pandemia è iniziata tre mesi dopo il lancio del primo DS. “Dopo averlo vissuto davvero, ho pensato che forse connettersi troppo non è una buona cosa”. Più che una critica al connettersi, allo stare insieme, quella di Kojima è però una osservazione sui modi in cui lo facciamo. “Gli esseri umani esistono in una realtà fisica”, ha dichiarato Kojima. Tra gli aspetti che critica, l’idea di lavorare a distanza. “Quando sono andato in America e finalmente ho potuto abbracciare di nuovo le persone, quella sensazione era completamente diversa”.
Death Stranding 2 ha come sottotitolo “On the beach” – la spiaggia è un mondo onirico dove morti e vivi si ritrovano, nell’universo creato da Kojima. Ma se il primo capitolo era un’ode alla riconnessione, questo porta con sé tutta una serie di valutazioni fatte durante la “disconnessione forzata” causata dal Covid 19. E le relazioni nate online a partire proprio da quel momento. “Quello che ho provato durante la pandemia è fortemente riflesso in questo gioco”, dice Kojima, che ha spiegato di avere completamente riscritto lo sviluppo del secondo capitolo, che aveva già ideato, dopo la pandemia. “In Death Stranding celebravamo la connessione, ma… le connessioni naturali nate offline sono molto più preziose di quelle costruite a distanza”.

Kojima ha annunciato che nel secondo Death Stranding ci sono anche “il triplo dei combattimenti”, che già comunque non erano pochi nel primo capitolo. Si può sempre scappare da molti scontri, o giocarli in modalità stealth, spiega lui, ma da quanto abbiamo visto, possiamo immaginare un DS2 in continua lotta. Per un mondo come quello che viviamo che si sta assuefacendo all’idea di una guerra ibrida perenne su scala globale, qui la profezia a Hideo Kojima potrebbe riuscire fin troppo ovvia. Ma come sottolinea lui stesso, qui non è lo scontro il protagonista, anzi: il gioco, insiste lui, non è sul combattere, ma “sul riconnettere di nuovo il mondo”.
Death Stranding 2: On the Beach, sviluppato da Kojima Productions e pubblicato da Sony Entertainment, è uscito il 26 giugno in esclusiva per PlayStation 5.
Immagine di apertura: Hideo Kojima nella mostra “Satellites” di Nicolas Winding Refn con Hideo Kojima, Prada Aoyama Tokyo, 18.4 – 25.8.2025. Foto Yasuhiro Takagi, Courtesy Prada