Arte Povera

A partire dal 1967, il critico italiano Germano Celant si fa portavoce di un movimento artistico che si oppone all’interpretazione capitalista dell’opera d’arte come oggetto di consumo.

Michelangelo Pistoletto, Labyrinth, 1969. Da Domus 478, settembre 1969

Le vicende dell’Arte Povera sono profondamente legate alla figura del critico d’arte genovese Germano Celant (1940). È proprio Celant, infatti, a coniare questa definizione nell’articolo Arte Povera. Appunti per una guerriglia, pubblicato il 23 novembre 1967 su Flash Art n. 5, che porta il movimento all’attenzione del pubblico, oltre che il curatore della prima mostra ad esso dedicata, Arte Povera Im-Spazio, tenutasi sempre nel 1967 alla Galleria La Bertesca di Genova.

Negli anni successivi, è lo stesso Celant a definire progressivamente, attraverso una sequenza di mostre ed articoli, una lista di artisti inquadrabili nell’ambito dell’Arte Povera. Ne risulta un elenco di 13 nomi, che comprende Giovanni Anselmo (1934), Alighiero Boetti (1940-1994), Pier Paolo Calzolari (1943), Luciano Fabro (1936-2007), Jannis Kounellis (1936-2017), Mario Merz (1925-2003), Marisa Merz (1926-2019), Giulio Paolini (1940), Pino Pascali (1935-1968), Giuseppe Penone (1947), Michelangelo Pistoletto (1933), Emilio Prini (1943-2016) e Gilberto Zorio (1944). 

L’Arte Povera è comunemente considerata come la più importante avanguardia artistica italiana della seconda metà del XX secolo. Sviluppatosi e definitosi in Italia, il movimento acquisisce una rilevanza culturale internazionale, che è stata molto spesso paragonata a quella che il Futurismo ebbe qualche decennio prima. Ed è ancora Celant a mettere in evidenza in molti suoi scritti una linea evolutiva che dal Futurismo, passando attraverso l’astrazione degli anni ’50, conduce fino all’Arte Povera. Nel 1969 la mostra When Attitude Becomes Form, curata da Harald Szeemann alla Kunsthalle di Berna, è il suo primo significativo momento di consacrazione sulla scena extra-italiana.

L’Arte Povera promuove un sostanziale rinnovamento ed ampliamento dei materiali propri della pratica artistica: legno, metalli, tessuti, oltre che un’ampia selezione di materie prime rintracciate direttamente nel mondo naturale, vegetale o animale, entrano a far parte della sfera dell’arte. Ma a questa materia “povera”, spesso ereditata da tradizioni artigiane locali, fa da contraltare una seconda categoria di materiali, di origine industriale e tecnicamente avanzati (specchi, vetri, neon). Da questo punto di vista, la duplicità dell’Arte Povera traduce la divaricazione tra arretratezza endemica e progresso folgorante che caratterizza l’Italia dell’epoca.

Nell’ambito più ampio della contestazione anti-capitalista della fine degli anni’60, l’Arte Povera promuove una sensibilità per molti versi antitetica a quella di correnti come la Pop Art, opponendosi tanto all’eccesso d’informazione quanto alla riduzione dell’opera d’arte ad oggetto commercializzabile, disponibile al consumo. Come spiega la storica dell’arte Claire Gilman, l’Arte Povera, pur senza riconoscersi strettamente in un’ideologia, né votarsi alla militanza, “celebrava (…) il ritorno alla natura e ai processi corporei come via d’uscita dalla razionalità borghese repressiva e dal sistema capitalista; [Germano Celant] apparteneva alla generazione del 1968 e sia nel tono sia nel contenuto i suoi saggi sono saturi del fervore anarchico del momento”.

È sotto l’influenza di questa temperie culturale che l’Arte Povera mette in crisi il rapporto tradizionalmente intenso tra significato e significante. L’opera d’arte rimanda unicamente a sé stessa e rifiuta sistematicamente di essere descritta attraverso la parola, e di essere inquadrata da una qualsiasi storiografia che la ricondurrebbe entro i limiti di quel sistema dal quale si vuole svincolare. L’Arte Povera vive innanzitutto nell’immediatezza del gesto, nella sua esperibilità, nella caducità della sua materia. La descrizione si tramuta in azione, e il ruolo del curatore assume una nuova centralità, a discapito di quello del critico.

Non a caso, una delle tappe fondamentali nella storia dell’Arte Povera è la mostra Arte Povera e Azioni Povere, che Celant è chiamato a curare nel 1968 agli arsenali di Amalfi dai collezionisti salernitani Marcello e Lia Rumma. Per descrivere la filosofia dell’azione dell’Arte Povera, lo storico dell’arte Gianfranco Maraniello cita le parole di Celant, che parla di “una completa osmosi di azione e corpo, pensiero e corpo, energia ed individuo, consumo immediato dell’evento critico-estetico, direttamente posto fuori consumo, e passaggio diretto dall’arte povera all’azione povera”. 

È attorno ad una sensibilità comune nei confronti di questi temi che si può costruire una continuità tra opere ad un primo sguardo molto distanti come i Quadri Specchianti di Pistoletto, realizzati a partire da una tecnica messa a punto già nel 1962, gli igloo di Mario Merz, di cui il primo esemplare risale al 1968, i planisferi ricamati di Boetti, la cui serie è inaugurata con la prima mappa del 1971-1973, gli esperimenti fotografici di Penone (sua è la celebre opera Rovesciare i propri occhi del 1970), o ancora i Bachi da setola (1968) e i tanti “mari” di Pascali.

Nei decenni successivi alla breve stagione iniziale dell’Arte Povera, circoscritta da Celant tra il 1967 e il 1971, questi ed altri artisti, oltre al curatore, ne manterranno vivi l’approccio e gli intenti. Pur nella specificità delle poetiche di ciascuno, li accomuneranno sempre “la negazione dell’ordine sistemico, l’insubordinazione alla cultura, all’egemonico, alla codificazione e cristallizzazione dell’immagine, alla tradizione del nuovo, a programmi che replicano modelli di manipolazione del mondo” (Maraniello). 

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